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I piani degli Stati Uniti per frenare la Russia sui missili. Il punto del sottosegretario Thompson

Brookings

Avanzati sistemi di difesa, consolidamento dei rapporti con i partner europei e una porta aperta al dialogo con Mosca. È la strategia con cui gli Stati Uniti sperano di riportare la Russia al rispetto del trattato Inf sui missili nucleari, ribadita oggi alla stampa europea da Andrea L. Thompson, sottosegretario del dipartimento di Stato americano per il controllo della armi e la sicurezza internazionale. L’ultimatum targato Donald Trump e Mike Pompeo è scaduto da qualche giorno, e restano meno di sei mesi ai russi per distruggere i contestati SSC-8, “che sono già dispiegati e perfettamente in grado di colpire i Paesi europei”. Nel frattempo, il Pentagono è a lavoro sui nuovi armamenti americani, ma se ci sarà una nuova corsa agli armamenti, “dipende solo da Mosca”.

L’ESCALATION

Non ha dubbi sulle responsabilità della nuova crisi missilistica il sottosegretario Thompson, la stessa che aveva annunciato a metà gennaio l’effettiva fuoriuscita degli Usa dall’accordo per il 2 febbraio. Allora, a Ginevra l’incontro con il vice ministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov si era tradotto in un nulla di fatto. Lo stesso è poi accaduto al vertice di Pechino, dove i rappresentanti di Mosca e Washington, a poche ore dalla scadenza dell’ultimatum, si sono ritrovati insieme ai colleghi francesi, inglesi e cinesi. Anche in quel caso, non è stato trovato alcun punto di contatto, ragion per cui il giorno dopo Donald Trump ha annunciato l’uscita dall’accordo siglato nel 1987. Immediata la risposta di Vladimir Putin, che a sua volta ha ufficializzato il ritiro.

I MISSILI DI MOSCA

Le accuse americane riguardano l’SSC-8 (o 9M729), un missile da crociera con raggio intermedio che, ha spiegato la Thompson, “non è né in fase di sviluppo né un prototipo, ma piuttosto un armamento già dispiegato in battaglioni multipli e pronto a colpire i Paesi europei”. Da parte sua, Mosca tenta da tempo di convincere la controparte che il vettore ha un raggio d’azione non compreso dall’accordo, rispedendo le accuse al mittente e chiamando in causa il sistema americano Aegis Ashore dispiegato in Romania. Accuse che rientrano “nella propaganda di Mosca” secondo il sottosegretario del dipartimento di Stato Usa, ragion per cui Washington rifiuta l’idea di ispezioni reciproche al sito Aegis e ai missili SSC-8. “Nessun altro ha avanzato dubbi sui sistemi Usa a parte la Russia, che invece vanta trasparenza con procedure che non sono per niente trasparenti”, ha spiegato la diplomatica americana. Così, “non c’è ragione per visionare il sistema Aegis poiché non ci sono prove su nostre violazioni”.

IL RUOLO DELLA CINA

In più, non ci sarebbe alcun tentativo da parte degli Stati Uniti di svincolarsi consapevolmente dal trattato per rispondere agli avanzamenti della Cina (che non è legata al rispetto dell’Inf Treaty) nel campo della missilistica. “Il trattato Inf riguarda solo noi e la Russia; la decisione del ritiro degli Stati Uniti è focalizzata sulla Russia”, ha rimarcato la Thompson. Eppure, ieri durante il discorso sullo Stato dell’Unione, lo stesso Trump ha ipotizzato l’avvio di negoziazioni per rimpiazzare l’Inf con un nuovo trattato che includa “la Cina e altri”, riprendendo intemperanze già manifestate in passato (e legate ai vincoli dell’accordo a cui gli Usa erano costretti ad attenersi) rispetto ai missili di Pechino. Intanto però, “nei prossimi sei mesi – ha assicurato Andrea Thompson – pensiamo a riportare la Russia al rispetto dell’accordo”. D’altra parte, ha aggiunto, al vertice di Pechino della scorsa settimana non sono arrivati segnali dell’intenzione cinese di avviare una simile negoziazione.

LA POTENZA AMERICANA

Occhi puntati sulla Russia dunque, che intanto ha presentato da tempo (e in pompa magna) le sue nuove tecnologie missilistiche, dal “Pugnale” ipersonico (il Khinzal) al siluro a propulsione nucleare, passando per il Satan 2, nuovo missile balistico più che intercontinentale. Armi notevoli, che però non spaventano “le Forze armate più forti al mondo”, ha detto la Thompson rispondendo a chi le chiedeva quali misure gli Usa intendano intraprendere di fronte ai nuovi armamenti di Putin. Anche in questo caso, gli annunci russi andrebbe depurati da una buona dose di “propaganda”, e comunque non ledono “la fiducia nello strumento militare statunitense”, a cui “il presidente ha ribadito durante il discorso sullo Stato dell’Unione pieno sostegno”. In questo modo, ha evidenziato la diplomatica, “il dipartimento della Difesa avrà a sua disposizione ogni sistema di cui avrà bisogno”. Proprio il Pentagono, ha aggiunto, “potrà adesso dare il via alle attività di ricerca e sviluppo che sono state vietate finora nel quadro del trattato”, ma il loro dispiegamento avrà come priorità “l’intesa con alleati e partner”.

VERSO UNA NUOVA CORSA AGLI ARMAMENTI?

L’impressione, inevitabilmente, è che si sia ormai aperta una nuova corsa agli armamenti. Su questo, la Thompson ha cercato di tranquillizzare gli alleati, ringraziandoli “per la partnership e il supporto” garantito agli Usa sul dossier Inf. La dura condanna dell’Alleanza Atlantica alla Russia per le sue violazioni “è un indicatore del forte rapporto transatlantico”. Questa è l’arma più forte contro le ambizioni di Mosca. Poi, “ci sono i sistemi di controllo e gli standard adottati in forme multiple, dalle organizzazioni multilaterali ai rapporti bilaterali”, ha ricordato la diplomatica. Il regime di non proliferazione non sarebbe al momento in pericolo, poiché “c’è solo una parte che sta distruggendo la sua reputazione: la Russia”.

LA STORIA DEL TRATTATO

Se le posizioni non dovessero cambiare nei prossimi mesi, l’Inf Treaty passerà definitivamente ai libri di storia. Siglato nel 1987 dai presidenti di Stati Uniti e Unione Sovietica, Ronald Reagan e Mikhail Gorbachev, il trattato proibisce esplicitamente il dispiegamento a terra di missili con un raggio fra 500 e 5.500 chilometri. Sin dal 2014, gli Stati Uniti denunciano i russi di violazioni, con accuse che Mosca ha puntualmente rispedito al mittente. Lo scorso ottobre, per la prima volta dalla firma dell’accordo, il presidente Usa ha minacciato l’uscita dal trattato, alimentando i timori per la tenuta del complessivo sistema di riduzioni delle armi nucleari; timori che sono destinati a sopravvivere per almeno i prossimi sei mesi.

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