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Ecco i Paesi che salgono e scendono nella giostra del rischio investimenti per il 2019

Chi sale, chi scende questo anno nell’ottovolante del rischio Paese? Una mappa molto utile è quella fornita da Sace Simest, società di Cassa Depositi e Prestiti, dove ci sono sorprese positive, come il Brasile e gli Emirati Arabi, e altre negative come Argentina e Turchia. Formiche.net ha chiesto ad Alessandro Terzulli, capo economista della società di fare un quadro dettagliato per le imprese che vogliono puntare sulla strada dell’internazionalizzazione.

LA TOP FIVE

“Ci sono due sorprese importanti per questo 2019. La prima è il Brasile. Con oltre 4 miliardi di export in una gamma di settori sempre più diversificata, il Brasile è già un partner economico importante per l’Italia” dice Terzulli. Adesso in più c’è il fattore Bolsonaro. Il neo presidente ha in canna un vasto piano di privatizzazioni e di riforme economiche che dovrebbero spingere il Pil già in crescita dal 2017 dopo diversi anni di recessione. In più può contare su alcuni elementi di forza: un livello adeguato delle riserve valutarie (circa 370 miliardi di dollari a fine 2018), un debito estero in rapporto al Pil contenuto (circa 32% nel 2018) e un solido sistema finanziario. L’altra grande scommessa sono gli Emirati Arabi Uniti. A fare da traino qui è certamente l’Expo di Dubai 2020 “sono partite le prime commesse per le aziende italiane – dice – l’auspicio è che al di là dell’avvenimento si sfrutti questo palcoscenico per presidiare un mercato già molto importante visto che esportiamo beni per 6 miliardi di euro”.

Tra i Paesi in positivo c’è anche l’India, dove la quota di mercato italiana è ancora scarsa, appena lo 0,4% circa 3 miliardi “Negli ultimi anni abbiamo registrato un cambio di passo nelle nostre esportazioni” confida il capo economista di Sace “grazie al programma made in India che vuole aumentare la quota di produzione manifatturiera del Paese e dove ci sono ampi margini per il nostro made in italy”. Poi c’è la Russia. Le sanzioni e l’incertezza sugli impatti di eventuali nuove misure hanno alimentato un flusso di capitali in uscita dal Paese nel 2018, stimato in 67,5 miliardi di dollari, più del doppio rispetto al 2017 (31,3 miliardi). L’andamento del rublo, per effetto dei flussi in uscita, si è slegato dal petrolio: le quotazioni del rublo sul dollaro erano addirittura diminuite del 14% nei primi nove mesi del 2018, nonostante il Brent si fosse apprezzato del 25%. Anche se “la domanda sta ripartendo – aggiunge Terzulli – e quindi anche l’import potrebbe aumentare e qui le nostre imprese sono sempre state in prima fila”. Infine l’Indonesia, anche se è un mercato che non è propriamente facile, però “sul medio e lungo termine può dare delle opportunità importanti” spiega Terzulli “ci sono le elezioni politiche il prossimo anno, tuttavia è un Paese da scoprire e che potrebbe riservare buone chance alle nostre imprese”.

CAUTELA SU TURCHIA E ARGENTINA

L’economia di Ankara ha risentito degli squilibri macroeconomici (un ampio deficit nelle partite correnti, conti pubblici fragili e un elevato indebitamento privato in valuta forte), generati da tassi di crescita non sostenibili nel tempo (del 6%, in media, nel periodo 2013-2017), e delle incertezze sul fronte politico. “A partire da settembre – spiega Terzulli – il governo turco ha adottato diverse contromisure, in particolare, una politica monetaria più conservativa (la banca centrale ha progressivamente incrementato i tassi di interesse) e la definizione di un obiettivo più restrittivo per l’inflazione. L’insieme di tali misure ha migliorato la percezione del rischio Paese, visibile ad esempio nella conferma dei prestiti sindacati rinnovati dagli istituti esteri alle principali banche turche. Le prospettive tuttavia sono di una recessione nel 2019 e una moderata ripresa negli anni successivi”. Simile la dinamica della crisi Argentina, a cui i mercati non perdonano le persistenti fragilità economiche e le incertezze politiche. Se il progressivo rialzo dei tassi americani ha comportato i ben noti effetti in termini di deflussi di capitali da Buenos Aires, “la percezione dei mercati di un allentamento nell’obiettivo di riduzione del tasso di inflazione – argomenta il capo economista di Sace – da parte della banca centrale e la peggiore siccità degli ultimi 50 anni hanno minato la fiducia degli investitori. Si è reso inoltre necessario procedere a significativi tagli di spesa, andando a deprimere la crescita economica: il Pil è atteso in calo nel 2019 e in moderata ripresa negli anni successivi”. L’adozione di misure di austerità potrebbe essere un elemento determinante nella competizione elettorale prevista a fine ottobre: qualora non dovessero manifestarsi segnali di ripresa economica dal secondo trimestre, il fronte peronista potrebbe cavalcare il malcontento popolare e mettere a serio rischio la rielezione di Macri, generando potenziali incertezze relative al destino dell’accordo con il Fondo.

IL REBUS STATI UNITI

È l’America di Donald Trump il grande rebus per i mercati. Un’economia che cresce ancora, il Fondo Monetario Internazionale anche per questo anno stima +2,5% ma tuttavia “c’è il rischio di un rallentamento” avanza Terzulli “e questo potrebbe ripercuotersi in quello che resta comunque il nostro terzo mercato con una quota del 9% per le nostre esportazioni”. Dal punto di vista finanziario è ancora Washington al centro delle paure del mercato: una politica eccessivamente restrittiva da parte della Fed non solo genererebbe tensioni sui listini di Wall Street, ma potrebbe nuovamente ripercuotersi sugli emergenti, con effetti concreti anche per le nostre imprese esportatrici. Eventuali ulteriori deflussi di capital dai mercati emergenti infatti, innescherebbero rialzi dei tassi d’interesse e una contrazione del credito concesso alle imprese locali, che avrebbero minori opportunità di investire. Permangono poi i rischi associati all’introduzione di nuove misure protezionistiche, specie con riguardo alle tensioni tra Cina e Stati Uniti. I due Paesi hanno concordato una “tregua” di 90 giorni (a partire dal 1° dicembre, ndr), durante la quale andranno avanti i negoziati per raggiungere un accordo: difficile prevedere quale sarà l’esito “ma un compromesso sembra meno irrealizzabile rispetto al passato, anche in virtù delle tensioni osservate sul mercato azionario statunitense” conclude Terzulli.

QUANTO PESERÀ LA BREXIT E LA CINA?

Altro punto interrogativo è la Brexit. Il voto negativo della Camera dei Comuni del 15 gennaio scorso aumenta le probabilità del no deal ma un’inversione di rotta (nuovo piano, nuove elezioni, nuovo referendum) non è da escludere, per quella che è stata una vicenda che ha riservato continui colpi di scena. Paradossalmente anche la Cina, negli ultimi anni motore dell’economia mondiale, preoccupa perché la sua crescita comincia a rallentare (anche se parliamo sempre di +6,2% previsto per il 2019). Se il Dragone consuma meno, minori potrebbero essere gli sbocchi anche per il made in Italy che ha investito tanto negli ultimi anni nell’ex Celeste Impero. “Anche se non ci sarà un hard landing – conclude il capo economista di Sace – è chiaro che un marcato rallentamento della crescita potrebbe inficiare il nostro export”.

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