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Porterà davvero crescita il Decreto Crescita?

Porterà crescita all’Italia il Decreto Crescita? E ci farà evitare gli aumenti dell’Iva? Il decreto era stato presentato come uno dei fiori all’occhiello del Movimento 5 Stelle (M5S) ma al Consiglio dei ministri del 23 aprile in cui ha avuto il via libero definitivo, non c’era quasi nessun esponente del governo appartenente al M5S. Premesso che la crescita non si è mai fatta per decreto, prima di dare un’opinione di merito sul provvedimento è doveroso aspettarne la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, anche in quanto era stato varato salvo intese dal Consiglio dei ministri del 4 aprile e da allora pare sia stato modificato più volte. Sull’Iva c’è per il momento il silenzio assoluto: i due vice presidenti del Consiglio assicurano che non ci saranno aumenti o cambiamenti, mentre il ministro dell’Economia e delle Finanze avverte che se non si trovano altri finanziamenti del bilancio dello Stato o non si riduce in misura significativa la spesa pubblica, sarà inevitabile operare sull’Iva.

Di che crescita e di che aumenti stiamo parlando? Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio – per neutralizzare le clausole di incremento dell’Iva e delle accise, finanziare le spese a politiche invariate e gli annunciati maggiori investimenti e mantenere gli obiettivi fissati nel Def, dovrebbero essere individuate misure per circa 25 miliardi di euro nel 2020, che salirebbero a circa 36 miliardi di euro nel 2021 per raggiungere i 45 miliardi di euro a fine periodo. La locuzione operativa sono le parole a politiche invariate. Cosa vuole dire? Nonostante, i due partner abbiano litigato per settimane sul Decreto Crescita di cui non si conoscono ancora i termini, una lettura attenta del Def, documento approvato dal Consiglio dei ministri ed inviato alle Camere ed alle istituzioni europee, dimostra che il governo propone una crescita cumulativa appena dello 0,8% del Pil per l’intero triennio 2020-2022, ossia di un aumento del Pil attorno allo 0,2%-0,3% l’anno. Per ammissione dello stesso esecutivo, quindi, le politiche invariate vogliono dire stagnazione ed un po’ di redistribuzione tramite il reddito di cittadinanza, un ancora nebuloso programma di sostegno alle famiglie e la reintroduzione delle pensioni di anzianità.

Le liti tra le due controparti del contratto di governo hanno assunto una frequenza che la politica economica pare dimenticata. Almeno sino alle elezioni del 26 maggio per il Parlamento europeo.

Anche se i protagonisti lo negano e se è tecnicamente difficile scadenzare elezioni politiche prima dell’estate – le Camere dovrebbero venire sciolte la settimana prossima, senza neanche un giro di consultazioni – spira aria di campagna elettorale all’ultimo sangue non tra governo ed opposizione, ma tra le due forze politiche che formano l’esecutivo. È una campagna elettorale così accesa che si fa unicamente se si è in sostanza in crisi anche sotto il profilo formale e l’esecutivo funziona ancora. La dimostrazione è data non solo dalle accese polemiche, ma soprattutto dal fatto che l’attività d’indirizzo legislativo è sostanzialmente ferma da circa un mese. Non ci sono iniziative di rilievo proposte dal governo al Parlamento. Per gli stessi decreti leggi, che – ricordiamolo – secondo la Costituzione devono riguardare materie urgenti – passano settimane tra l’approvazione salvo intese in Consiglio dei ministri e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dopo una seconda, od anche una terza, riunione del Consiglio dei ministri.

In questo contesto, non c’è ovviamente attenzione né delle forze politiche né di gran parte della stampa sulla politica economica, sulla manovra di bilancio da effettuare in autunno e sull’eventuale aumento dell’Iva. È la quiete prima della tempesta perché il tema tornerà caldo, anzi caldissimo, subito dopo le elezioni per il Parlamento europeo. Lo stesso esecutivo propone – come si è visto – obiettivi di crescita rasoterra; quindi, per colmare la falla nella finanza pubblica, è verosimile che l’Iva verrà aumentata. E non sarebbe il male peggiore. Ulteriori aumenti dello spread sarebbero un freno ancora più forte sull’economia italiana.

Le audizioni in Parlamento sul Def hanno chiarito che sarebbe bene che, a politiche invariate, si lasciasse aumentare l’Iva nel 2020 se si vuole garantire la modestissima crescita dell’Italia che è negli obiettivi del governo. L’Istat ha detto che un aumento dell’Iva, in questa fase, comporterebbe una riduzione di Pil limitata allo 0,2%. A sua volta la Banca d’Italia ha confermato che, invece, un aumento di 100 punti dello spread farebbe perdere lo 0,7% del Pil in tre anni. Se ne deduce che, se si impedisse l’aumento dell’Iva e si lasciasse lievitare il deficit pubblico fino al 3,4% avremmo un aumento dello spread che sarebbe molto più depressivo dell’aumento dell’Iva.

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