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È scomparso il dibattito sulle riforme

mor sturzo, Commissione Difesa, referendum

Dopo il referendum fallito

C’è un grande assente dal dibattito pubblico italiano e dal focus stesso degli interessi della politica: le riforme di sistema, compresa quella del sistema elettorale. E una novità, visto che il tema delle riforme è stato uno dei leit-motiv della nostra politica negli ultimi trent’anni. È come se l’affossamento per via referendaria dell’ultimo di una lunga serie di tentativi, cioè la pur timida riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi, abbia messo definitivamente in congelatore quella che solo fino a ieri veniva considerata, non a torto, una esigenza impellente per il nostro Paese.

La stessa legge elettorale passata sotto il governo Gentiloni, e con la quale abbiamo votato un anno fa, sintesi dei più bassi interessi di bottega delle forze allora predominanti in parlamento, è come se avesse attestato questa volontà di arrendersi. Si è nei fatti ritornati ad un passato proporzionalistico nella speranza forse di far rivivere all’Italia quei momenti d’oro che, in un molto diverso contesto e per altri motivi, ci permisero nel dopoguerra di crescere e agguantare rapidamente la modernità. Ma il passato non ritorna, ovviamente. E il vintage è bene che resti un’opzione per gli stilisti, non per i politici.

Una nuova legge elettorale per uscire dal pantano

A ben vedere quello delle riforme è stato l’ultimo, vano tentativo di cambiare dall’interno un sistema che col tempo non era stato più in grado di garantire governabilità e ruolo all’Italia. Certo, il dibattito sulle riforme è molto astratto e, per le sembianze che in certi momenti ha assunto nel nostro Paese, non esente da bizantinismi. Che non appassioni il grosso pubblico, è comprensibile. Così come è giusto che il governo gialloverde, pur fra mille confusioni e contraddizioni, abbia riportato il dibattito politico sui fatti concreti. Un po’ di sano pragmatismo non guasta. Eppure, l’esigenza delle riforme, a partire da quella di una Costituzione superata, scritta in altri contesti storici da forze politiche che non esistono più, è quanto mai importante. Molti dei nostri problemi nascono da lì.

Si potrebbe cominciare realisticamente modificando di nuovo la legge elettorale, quella con cui si è votato il 4 marzo dell’anno scorso e che è la causa prima del “pantano” in cui ci troviamo (come lo ha definito su queste colonne Roberto Arditti). Il nostro problema resta ancora oggi, anzi oggi più che mai, quello della governabilità e non della rappresentatività del parlamento: il proporzionale non fa che esaltare e spesso aggravare le fratture e le molte faglie di divisione che attraversano il paese.

Certo, non siamo tanto ingenui da non sapere che una legge elettorale può passare solo se c’è una convergenza di interessi fra le forze maggioritarie in parlamento. Mi chiedo però se in prospettiva, finita l’esperienza governativa, anche fra quattro anni come logica vorrebbe, non sia però conveniente per Lega e Movimento 5 Stelle tornare a dividersi e a contrapporsi nella consapevolezza di dominare ormai i loro rispettivi campi, che sono quelli della destra e della sinistra, anche se rivisitate in chiave postmoderna e in un certo senso anche “trasversale”. Ho l’impressione infatti che, per come si sta muovendo, recuperando sostanzialmente il vecchio in tutte le sue declinazioni e senza una idea nuova di politica e di cambiamento, alla lunga Nicola Zingaretti non sia un problema per i pentastellati o per chiunque né possa arrestare il declino della sinistra tradizionale. Declino che, d’altronde, è nella storia e nei fatti, non solo italiani.

Una legge elettorale non proporzionale potrebbe permettere agli uomini di Di Maio, sempre in prospettiva, di continuare ad aspirare al governo ma senza la zavorra ai piedi di un alleato diverso e per loro molto ingombrante quale è quello leghista. Per i quali anche vale il contrario e i quali anzi, nel loro campo, non hanno già ora nessun problema di leadership.

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