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Rinegoziare gli F35? Immaturità politica. La versione di Gaiani che suggerisce…

Il dossier F-35 è tornato a scaldare la politica italiana. Il dibattito appare però troppo superficiale, sintomo di “un’immaturità politica” da risolvere in fretta per utilizzare la partecipazione al velivolo di quinta generazione al fine di evitare i dazi che gli Stati Uniti imporrano ai prodotti europei, e per ottenere migliori ritorni di lavoro per le industrie nazionali. Parola di Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, grande conoscitore del comparto e già consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno con Matteo Salvini. Formiche.net lo ha raggiunto per capire meglio la nuova puntata del dibattito sul dossier F-35, tornato sotto i riflettori dopo le rivelazioni di ieri in merito alla conferma degli impegni che Giuseppe Conte avrebbe dato a Mike Pompeo. Rivelazioni che hanno “sorprese” la compagine M5S, a partire dal capo politico Luigi Di Maio secondo cui il programma “va senz’altro rivisto e rimodulato”. Poi, in serata, “fonti di palazzo Chigi” sono intervenuto per riportare che “il premier è d’accordo sulla necessità di rinegoziare gli accordi”.

Direttore, la vicenda non è nuova. Come legge la puntata più recente?

È un dibattito lungo, infinito, che avrebbe dovuto risolversi già con con il governo precedente. Il ministro Trenta non ha preso decisioni, se non quella di pagare i conti di aeroplani già ordinati e di dire che spettava al premier Conte esprimersi sul programma, cosa che lui non ha fatto se non parlare di una generica revisione come chiedono i 5Stelle da tempo (che però non l’hanno fatto quando erano loro stessi alla Difesa). Così si è perso tempo, più di un anno che poteva essere impiegato per definire seriamente se abbiamo bisogno dei velivoli, se ne servono così tanti e se possiamo permetterceli. Personalmente, sono stato sempre ostile al programma, non per la qualità per l’aereo, il cui sviluppo resta da finire e su cui non ho competenze per esprimermi, ma perché non è chiaro se avremmo i soldi per gestirlo, dato che i fondi per l’Esercizio della Difesa sono sempre più ridotti.

Ritiene dunque che il dibattito politico sia troppo circoscritto?

Sì. La riflessione non dovrebbe limitarsi a capire se comprare o meno il velivolo. Occorre pianificare quanti ne servono e, soprattutto, quanti ne saremo in grado di sostenere in servizio dati i livelli di spesa che vorremmo mantenere. E invece, purtroppo, si naviga a vista.

Perché?

Perché ci sono interessi politici che vanno al di là del valore o della necessità dell’aereo. Con il precedente governo, che potremmo definire sovranista, in rotta di collisione con Bruxelles e con l’asse franco-tedesco, la decisione di completare il programma aveva una sua chiara validità per evitare, in una condizione di braccio di ferro con la Germania, di litigare anche con Washington. In sintesi, il ragionamento era: l’America sostiene la nostra politica sovranista, noi compriamo gli F-35. Eppure questa scelta non è stata fatta.

E con l’esecutivo giallo-rosso?

Oggi, pur con lo stesso premier, il governo è decisamente più orientato verso un’Europa a trazione franco-tedesca. Il problema è dunque diverso, e lo abbiamo notato con il segretario di Stato Mike Pompeo, venuto qui per ricordarci che le politiche protezionistiche contro Airbus (che, va ricordato, non è un’azienda italiana, ma che anzi è spesso rivale delle nostre aziende di settore se escludiamo Mbda) colpiranno anche il nostro Paese. C’è dunque da chiedersi che politica vogliamo attuare, ed è innegabile che ci siano spazi per negoziare i dazi al made in Italy in connessione con il completamento del programma. Tuttavia, non c’è stata né una valutazione tecnica, operativa e finanziaria sulla sostenibilità del programma, né una valutazione politica sul suo utilizzo in chiava di difesa dai dazi americani. Ripeto: navighiamo a vista, privi di una strategia militare d’impiego e di una valutazione sui vantaggi della commessa in Italia, anche relativa ai posti di lavoro che, sebbene minori rispetto a quanto previsto all’inizio, rischiano di ridursi ancora.

Tra chi promuove la rimodulazione degli impegni resta il tema della diversa allocazione delle risorse. In sintesi, comprare meno F-35 permetterebbe di “liberare miliardi di euro da investire in scuole, ospedali e trasporti pubblici”. È una lettura che regge?

È una lettura che dimostra l’immaturità di movimento politico e di un’intera classe politica che negli ultimi 15 anni ha più volte attaccato la spesa militare, di cui l’F-35 è solo l’elemento più visibile perché più costoso, e dunque più facilmente attaccabile. Dire che gli investimenti per velivoli di quinta generazione potrebbero essere utilizzati per costruire asili nido, o che quelli per una portaerei potrebbero andare a favore di campi-scuola per disabili è fuorviante. Il bilancio della Difesa serve alla Difesa, così come i bilanci di altri dicasteri servono alle rispettive funzioni.

Ci spieghi meglio.

Il ragionamento del M5S, uguale a quello utilizzato in passato dall’estrema sinistra, è a mio avviso immaturo. Avrebbe più senso se aprisse un dibattito generale per puntare a concludere che la Difesa non serve a nulla. A quel punto, si sbaraccherebbe l’intera Difesa (non un solo programma), ricavando risorse da dedicare al resto. Al contrario, tagliare all’interno della Difesa senza metterne in discussione le funzioni di base significa renderla inutile; vuol dire rendere le Forze armate incapaci di fare il proprio mestiere.

Sembra che si tratti di un ritardo culturale nel campo della Difesa.

Più che altro parlerei di una sorta di immaturità politica, catalizzata in questo momento sugli F-35. Ricordo che, nel 2007, quando mandammo una serie di mezzi da combattimento e droni disarmati in Afghanistan, ci fu un politico dell’estrema sinistra che criticò l’invio del velivolo perché chiamato Predator. Una cosa simile è avvenuta sul “uso duale sistemico” promosso come mantra dal precedente ministro della Difesa. Se non c’è la capacità politica di accettare il fatto che le Forze armate servono per difendere i confini e gli interessi nazionali, ed eventualmente per combattere (cosa per cui devono essere preparate), resteremo a un livello di immaturità. Abbiamo un’incapacità di fondo di buona parte della politica ad accettare le Forze armate per quello che istituzionalmente sono.

Torniamo agli F-35. Come andrà a finire secondo lei?

Ci sono diverse opzioni. Potremmo completare la commessa, oppure tagliare ulteriormente il numero dei velivoli previsti, magari rinunciando a una quota sacrificabile che, secondo me, potrebbe essere individuato nei quindici F-35B (versione a decollo corto e atterraggio verticale, ndr) previsti per l’Aeronautica. In ogni caso, si dovrebbe trattare di un taglio ragionato e ben studiato. C’è poi una terza opzione: prendere ancora tempo, rinnovando qualche acquisto prossimamente senza assumere una chiara. Da notare, in tal senso, che nell’attuale governo sono molte le forze che si sono dichiarate favorevoli a un taglio o, addirittura, all’abbandono del programma. Lo fece il Pd di Renzi, lo fanno i 5Stelle e lo fa Liberi e Uguali. Insomma, non c’è nessuno nell’esecutivo che abbia mai difeso a spada tratta gli F-35. Una cosa però è importante: negoziare.

Fa riferimento ai dazi che gli Usa imporranno sui beni europei?

Sì, ma anche alla necessità di negoziare dei ritorni industriali seri, i quali sarebbero sicuramente colpiti negativamente da nuovi tagli. Tra l’altro, l’estromissione della Turchia dal programma determina anche l’uscita della sua capacità di produzione di alcune componenti, e ciò potrebbe offrirci opportunità per nuovo lavoro, chiaramente a condizione del completamento del programma. Inoltre, oggi la rimodulazione può essere un argomento su cui negoziare la questione dei dazi. Sarebbe il modo ideale per trattare con gli americani utilizzando anche le commesse commerciali. Gli Stati Uniti hanno sempre considerato l’F-35 una questione strategica, poiché lega agli Usa con un vincolo di dipendenza per i prossimi 50 anni i Paese che lo impiegano. Per Trump le commesse militari hanno però un valore più economico e meno strategico. L’export militare nei Paesi alleati è per il presidente un riequilibrio dello sbilanciamento commerciale ai danni dell’America. Esportare equipaggiamenti è il modo con cui permettere ad altri Paesi di compensare le loro esportazioni verso gli Stati Uniti. Oggi, con l’F-35, l’Italia ha l’opportunità di negoziare il ritiro dei dazi minacciati.

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