Skip to main content

Investimenti verdi. Come valutarli? L’analisi del prof. Pennisi

Oggi 10 ottobre, deve essere inviato, entro la mezzanotte, il Documento programmatico di bilancio (Dpb) alla Commissione europea. È un termine perentorio, per utilizzare il linguaggio del diritto amministrativo, ma temo che noi (e gli altri) lo abbiamo spesso sforato di qualche ora o anche di qualche giorno. Esaminando attentamente il Dpb tra qualche giorno potremo dire se le osservazione fatte dall’Ufficio parlamentare di bilancio, dalla Corte dei Conti, dall’Istat e da altri nelle audizioni sulla Nota d’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef) soprattutto in materia di debito pubblico e di stima del gettito aggiuntivo derivante dalla lotta all’evasione sono stati in conto nella preparazione della legge di Bilancio.

È auspicabile che gli uffici del ministero dell’Economia e delle Finanze tirino la giacchetta al ministro (forse non a conoscenza delle procedure) perché venga fatto un decreto al fine di evitare che i cento miliardi per progetti d’investimento pubblico stanziati in passato (e bloccati sia dalla filosofia anti-infrastrutture del M5S sia da pastoie burocratiche) non finiscano in perenzione. Inoltre occorre stabilire presto i criteri di valutazione per gli “investimenti verdi” che dovrebbero essere una caratteristica del “governo della svolta”.

La materia è stata ampiamente trattata in un documento di osservazioni e proposte del Cnel su parametri di valutazione e criteri per gli investimenti pubblici del 18 dicembre 1982 e ripresa nel 2016 nel libro “La Buona Spesa: dalle opere pubbliche alla spending review” che ho scritto con Stefano Maiolo (ora all’Agenzia coesione territoriale) e pubblicato per le Edizioni “Biblioteca di Impresa Lavoro” nel 2016.

Gli investimenti verdi, infatti, si estendono su un numero molto lungo di anni e non possono essere valutati come le altre infrastrutture in quanto c’è una grande incertezza nella stima le loro voci di costo e benefici sia nel definire un tasso di sconto appropriato per attualizzarli e confrontarli al momento in cui si devono assumere decisioni ad essi pertinenti.

Quest’ultimo punto è stato ricordato di recente in modo eloquente da Graeme Guthrie della Victoria University of Wellington in un bel saggio intitolato Discount Rate Uncertainty and Cost Benefit Analysis : Should Long-Lived Projects be Treated Differently? È utile tener da conto il tasso di attualizzazione per valutare l’investimento pubblico in numerosi Paesi Ue (per molto tempo la Francia è stata un’eccezione), riflette il vincolo di bilancio pubblico e misura il declino del valore sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili; quindi, è stato a lungo elevato, tra l’8% e il 10%. Peraltro, la Commissione europea accetta il 6% per progetti a valere sui fondi strutturali. È anche utile tener presente che, nonostante la crisi finanziaria e quella del debito sovrano abbiano in questi ultimi anni rese più scarse le risorse pubbliche, pare esserci stata una revisione dell’approccio.

L’Italia ha applicato, per anni, saggi tra l’ 8 – il 5%-ed il 2,5%. Variava secondo le varie fonti di finanziamento. La delibera Cipe del 1984 indica l’8%, la direttiva della presidenza del Consiglio del 1987 il 5% (per investimenti nel Mezzogiorno), il manuale del ministero Affari Esteri del 1991 (mai aggiornato) il 2,5% (per investimenti di cooperazione allo sviluppo). Inoltre, nell’analisi costi benefici dell’alta velocità Torino-Leone viene impiegato un tasso del 3% (in linea con il documento di osservazioni e proposte del Cnel). Ciò suggerisce la forte esigenza di una direttiva univoca.

È solo il primo passo, ma essenziale. Data l’incertezza sui costi e sui benefici, occorre applicare il metodo delle opzioni reali, illustrato in linguaggio piano nel volume scritto con Maiolo e pubblicato nel 2016. Il terzo, e più complesso, passo consiste nel quantizzare le voci di costi e benefici ambientali che spesso non è affatto facile esprimere in termini monetari.

×

Iscriviti alla newsletter