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L’accordo italo-libico e le sfide della governance migratoria secondo Nadan Petrovic

Di Nadan Petrovic

L’attuale dibattito sui flussi irregolari, sia in Italia che in Europa, rimane confuso e senza chiarezza di pensiero, oltreché carico di ipocrisie: siamo contro l’accordo Ue-Turchia ma, allo stesso tempo, non siamo pronti a prenderci i rifugiati siriani (che, peraltro, non vedono ora di lasciare la Turchia); siamo indignati dalle condizioni disumane e degradanti dei campi profughi libici, senza chiedersi il perché i migranti ed i rifugiati continuano ad arrivare in Libia. Poi si arriva al massimo dell’ipocrisia quando si cerca di far credere che esista un governo libico.

Eppure, nei prossimi anni (se non decenni) l’Unione europea continuerà inevitabilmente ad affrontare forti flussi migratori. La grave e continua instabilità di molte aree confinanti con il confine meridionale e sud-orientale dell’Unione, insieme allo strutturale squilibrio economico-sociale e demografico tra Medio Oriente, Maghreb e aree sub-sahariane con quella dell’Unione europea, continuerà a produrre conseguenze migratorie a medio-lungo termine. Con ogni evidenza, la cosiddetta “crisi dei migranti e dei rifugiati” nel 2015 non è stata un episodio ma solo una fase di un processo epocale sebbene, al momento, di dimensioni leggermente più contenute. Infatti, nonostante i controlli alle frontiere sempre più severi, a tutt’oggi, decine di migliaia di persone stanno cercando di raggiungere l’Ue attraverso vari canali o modi operativi.

Le reti testate e strutturate dei trafficanti di esseri umani, presenti da tempo nella gestione del flusso, hanno dimostrato, già in passato, un’enorme capacità di adattamento e invenzione nella (ri)attivazione di sempre nuovi canali di ingresso irregolari; tuttavia, le rotte migratorie verso l’Unione europea negli ultimi 20 anni seguono sostanzialmente tre direzioni principali: la rotta del Mediterraneo centrale – negli ultimi anni principale rotta per raggiungere l’Europa, la rotta del Mediterraneo orientale dalla Turchia alla Grecia e infine quella del Mediterraneo occidentale dal Marocco alla Spagna.

Questa realtà dei fatti penalizzerà molto, a lungo termine, i paesi di primo ingresso – in particolare Italia e Grecia – ma sta anche lentamente ma sicuramente contribuendo al progressivo deterioramento dello scenario politico-istituzionale, che sta portando alla potenziale disintegrazione del cosiddetto Sistema Schengen.

La risposta dell’Unione europea a queste sfide, è stata finora sostanzialmente inadeguata. Ad essere onesti, per quanto riguarda la dimensione “esterna” delle politiche Ue, non tutte le misure adottate negli ultimi anni erano di per sé sbagliate. Tuttavia, anche in presenza di alcune misure “ben comprese”, queste sono apparse estemporanee, lasciando gli Stati sostanzialmente soli nell’individuazione delle forme migliori di migration governance. Eppure, l’Unione dovrebbe definire con urgenza la sua strategia a medio lungo termine verso il suo vicinato sud e sud-est, una vasta area che si estende dal Bangladesh alla Nigeria, a partire dal riconoscimento della sua caratteristica principale, vale a dire il fatto che è l’unica frontiera esterna dell’UE investita dal fenomeno della migrazione di massa (rispetto a una sostanziale inesistenza dei confini nord e ovest e una situazione a est che dipende sostanzialmente solo dalla stabilità della Federazione russa).

L’attuazione di tale strategia a medio lungo termine dovrebbe basarsi su una intelligente e perspicace politica estera e di sicurezza nei confronti dei principali paesi di origine dei richiedenti asilo (anche alla luce del fatto che l’Unione è rappresentata da un numero significativo di paesi membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), finalizzata alla pacificazione delle aree di crisi, ma anche al sostegno delle comunità di rifugiati (ivi compreso attraverso un notevole rafforzamento dei cosiddetti programmi di reinsediamento). Allo stesso tempo, tuttavia, è indispensabile una lungimirante e costante politica di cooperazione e internazionalizzazione nei confronti dei paesi interessati principalmente da un flusso di emigrazione economica, accompagnata da una decisa riapertura dei canali di migrazione regolare.

Infatti, alla luce delle considerazioni di cui sopra, è oltremodo necessaria una discussione schietta su alcuni paradigmi e “totem” nelle politiche dell’Ue in materia di asilo e immigrazione. Attualmente, la principale modalità di arrivo dei cittadini dalla maggior parte dei paesi del Medio Oriente e dei paesi africani nell’Ue passa attraverso arrivi irregolari e, di conseguenza, presentazione di una domanda di asilo. La maggior parte di loro tuttavia non ottiene mai protezione internazionale ma, nel frattempo, rimane nei centri di accoglienza per anni e, alla fine, a causa dell’incapacità degli Stati dell’Ue di rimpatriare coloro che non hanno il diritto di rimanere, permane irregolarmente sul territorio. Ed, ancora prima, molti finiscono nel “pantano libico” o vittime di naufragi nel Mediterraneo.

La vera domanda non è tanto se l’accordo italo-libico sia valido ed opportuno bensì per quale motivo ancora così tanti migranti transitano per la Libia; un accordo senz’altro criticabile non per i suoi contenuti in sé bensì a causa delle credenziali, politiche e morali, della controparte libica firmataria. Infatti, considerando i costi economici, sociali e politici della gestione del fenomeno, sarebbe senz’altro preferibile far arrivare i migranti (ed i rifugiati, nell’ambito delle già menzionate operazioni di reinsediamento) attraverso canali di migrazione regolare, che permetterebbe peraltro il risparmio delle attuali esorbitanti spese connesse alle operazioni di salvataggio, alle procedure d’asilo ed alla gestione dell’accoglienza, così come sostenere iniziative di cooperazione allo sviluppo funzionali alla migliore gestione delle migrazioni. Naturalmente, ambedue le misure richiederebbero l’adozione di provvedimenti legislativi mirati e l’allocazione di capitoli di bilancio, e non solo “comparsate” sui social e nei talk show televisivi.

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