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Ecco come l’arte ha raccontato il Muro di Berlino. L’analisi di Benincasa

Di Fabio Benincasa

A trent’anni dalla sua caduta sembra quasi fantapolitica l’esistenza di questo manufatto che per 28 anni, tra il 1961 e il 1989, ha materializzato la metafora dell’iron curtain evocata profeticamente da Churchill nel discorso di Fulton, all’alba della Guerra fredda. Guerra fredda e Muro di Berlino hanno finito per diventare sinonimi, considerando che la riunificazione delle due Germanie ha segnato la fine del confronto tra le due superpotenze del XX secolo. Lo sguardo visionario dei registi ha visto subito il Muro come materializzazione di divisioni ideologiche e di angosce esistenziali.

Billy Wilder con il suo Uno, due, tre (1961) ci dà una rappresentazione immediata delle vicende berlinesi. È il film di un ebreo tedesco, transfugo e deluso, che raffigura tutti i tedeschi come nazisti, i sovietici come ottusi stalinisti e gli americani come corrotti capitalisti, senza risparmiare veramente nessuno. Sulla scenografia del Muro si proietta una commedia umana di divisione e alterità, senza nessuna possibilità di sintesi o di fuga utopica. L’antropologia negativa, per la quale la guerra forse è stata combattuta invano, è affrontabile solo come satira. Il Muro era la cicatrice di un’Europa che non riusciva a gettarsi alle spalle le sofferenze delle guerre mondiali e dei totalitarismi. Il che giustifica l’entusiasmo popolare alla sua caduta e l’ansia generale di cancellarne ogni traccia architettonica, tranne poche eccezioni assurte al rango di reliquie urbane.

È a causa di questo dolore che i primi film ad affrontare il dramma del Muro sono commedie? Oltre a Wilder, bisogna ricordare almeno il nostrano Totò e Peppino divisi a Berlino (1962). Quasi un instant movie di Age e Scarpelli per le geniali improvvisazioni dei due comici napoletani. Qui a prevalere è la totale estraneità dei clown, irriducibili alla tragedia della Storia europea che ripetono in farsa corporale: al servizio di nazisti, americani o russi pur di riempire la pancia, senza mai capire ciò che incombe su di loro.

Che il Muro fosse diventato alla fine il simbolo di un conflitto non solo storicoideologico, ma anche interiore, lo dimostra bene il successo dell’album dei Pink Floyd The Wall, diventato poi un film culto nel 1982 per la regia di Alan Parker. Berlino non c’è, ma se ne interiorizza la simbologia come chiusura in se stessi ed evocazione di un altrove politico che emerge da un inconscio inesplorabile. Il Muro è figlio dell’occidente e l’occidente un parto del Muro.

Il vero passaggio culturale che fonda il Muro come metafora dell’esistenza è però di qualche anno dopo ed è dovuto al genio di Wim Wenders. Il cielo sopra Berlino fa coincidere la tragedia storica con l’esistenza universale. Gli angeli wendersiani, muti testimoni della rovina della Storia, sono virtualmente (ma anche visivamente) separati dalle vicende umane, senza potervi prendere parte. Il Muro, dopo più di vent’anni, è diventato completamente interiore. L’unico modo per spezzare la circolarità storica della tragedia è l’abbandono a un sentimento romantico o forse sarebbe meglio scrivere Romantico.

L’atmosfera cambia ancora dopo l’89. Goodbye Lenin (2003) è il ritorno della commedia paradossale nell’approcciare l’enormità del fatto storico. Nel film di Wolfgang Becker, la Ddr diventa parco a tema, immaginario totalmente virtuale, quasi un Truman Show del socialismo reale. La realtà storica si fa palcoscenico per la società dello spettacolo, il negativo è rimosso e rimane soltanto una patina nostalgica, di piccoli oggetti di pessimo gusto.

Molto più efficace l’approccio di Spielberg nel suo Ponte delle spie (2015). In questo caso il socialismo reale con cui si scontra l’all-American. Tom Hanks è ciò che gli Stati Uniti rischiano in ogni momento di diventare. Un enorme rimosso della Storia di fronte al quale l’unica possibilità risiede nella fiducia verso l’azione del singolo individuo. Un film profetico che smaterializza il Muro dall’Europa e lo porta in giro per il mondo, alludendo alle numerose barriere di separazione con le quali dobbiamo misurarci nel contemporaneo.

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