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Gli Xinjang papers e noi. Il commento di Pennisi

I meno giovani, o coloro che circa un anno fa, hanno visto il film The Post, ricorderanno senza dubbio, il clamore suscitato in Italia dai Pentagon Papers, la documentazione sulla guerra in Vietnam, fatta predisporre dall’allora segretario alla Difesa Robert S. McNamara e giunta al Washington Post. Venne in gran misura tradotta in italiano, ne uscirono alcuni libri, se ne parlò a lungo.

Pare, invece, che ci sia il silenzio stampa sugli Xinjang Papers, oltre quattrocento pagine di documenti che da una settimana possono essere letti sul sito web del New York Times (gratis per gli abbonati, a pagamento per gli altri). Né la Repubblica Popolare Cinese né il Partito Comunista Cinese hanno smentito i documenti: un comunicato si è limitato a dire che si tratta di “carte trafugate ed inviate all’estero da sabotatori del governo e del grande popolo cinese”. Quindi, la veridicità dei documenti è confermata.

Xinjang è la provincia nel nord ovest della Cina, abitata prevalentemente da Uiguri e Kazaki di lingua uralica (come i turchi ed i coreani) e di religione mussulmana. Discriminati ma lasciati relativamente in pace sino al 2014, quando si verificarono tre attentati, sono da allora oggetto di persecuzione. Tutto ciò è noto. Quello che gli  Xinjang Papers rivelano è che a guidar le danze sono il presidente della Repubblica popolare e Capo del partito, Xi Jimping ed i suoi stretti collaboratori, che l’obiettivo dei campi di concentramento e di lavori forzati è quello di cambiare psicologicamente le popolazioni ritenute ostili e che nonostante la disparità di forze messe in campo Pechino sta incontrando crescente opposizione proprio dai dirigenti della Provincia e del Partito (di pura stirpe Honan) che dovrebbero eseguire gli ordini.

Gli Xinjang Papers mostrano che i poteri centrali sono un gigante zoppo da anni alle prese con resistenza più o meno passiva dei propri proconsoli. Mettono in luce la vera e propria paranoia di Pechino che si sente assediata non solo dai poveri Uiguri e Kazaki ma anche e soprattutto dai propri funzionari che dovrebbero mettere ordine nello Xinjang. Ed è altamente probabile che sia stato uno di loro (od anche più di uno) a fare arrivare a New York documenti in originale e con timbri ufficiali. Ciò apre vari problemi. Uno Stato che si dice difensore dei diritti umani può corteggiare un regime che pare non abbia contezza di cosa tali diritti sono ed un’oligarchia che vuole cambiare la psicologia di parte dei propri cittadini? Può gloriarsi di firmare Memorandum of Understanding con un gigante zoppo non in grado di gestire i propri funzionari? Può permettere che vengano venduti nel proprio territorio prodotti probabilmente frutto di lavoro forzato di persone ridotte in schiavitù in attesa che cambi la loro “psicologia”? Che ne pensa il Ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale?

Sono interrogativi che tutto il governo dovrebbe porsi. Per andare più sul pratico ed operativo, si dovrebbe leggere “Foreign Direct Investment and Investment Arbitration in China”  di Kun Fan dello Herbert Smith Freehills China International Business and Economic Law (Cibel) Centre nel volume (a cura di Carlos Espungles) Foreign Investment and Investment Arbitration in Asia, 2019, Intersentia, pp. 25-54. Se ne trae un quadro sconsolante.

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