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Se i jihadisti incoraggiano il virus: “È uno dei soldati di Allah”

Di Francesco De Remigis

I gruppi jihadisti stanno seguendo da vicino la diffusione del nuovo coronavirus. Nelle loro pubblicazioni e sui social media compaiono analisi, minacce e persino linee guida sanitarie. E per i musulmani infettati a New York, c’è l’invito a contagiare il personale dei consolati. Tanto che, scrive il Wall Street Journal, i funzionari antiterrorismo farebbero bene a monitorare queste comunicazioni per capire il loro modo di pensare e agire al tempo del Covid.

Jihadisti ed estremisti sembrano gongolare per le restrizioni sanitarie, specialmente negli Stati Uniti. Un résumé raccapricciante di virgolettati lo compila Steven Stalinsky, direttore del Middle East Media Reserach Institute di Washington, proprio sul WSJ. Gli occidentali “erano soliti deridere le donne che indossavano il niqab islamico e ora stanno facendo lo stesso”, si legge per esempio sul canale jihadista al Tawhid Awalan il 17 marzo su Telegram: dichiarazione con foto che irride i medici in camice e mascherina.

Molti jihadisti incoraggiano il virus? Basta leggere, secondo Stalinsky, Balagh, rivista mensile dell’area siriana di Idlib fatta da predicatori con simpatie per al Qaeda: in un testo si definisce il Covid-19 “uno dei soldati di Allah” o meglio “il corona-soldato”. Un argomento, questo, già popolare su varie piattaforme legate alla galassia estremista. Il noto Khalid al Sibai, per esempio, avverte sul canale Telegram dell’agenzia di notizie Thabat che questo “minuscolo soldato”, che ha già devastato gli Stati Uniti e i suoi alleati, potrebbe presto essere raggiunto da jihadisti in carne ed ossa.

Una minaccia non dissimile da quanto trasmesso sulla tv vicina ad Hamas, al Aqsa: con l’imam Jamil al Mutawa pronto a vantare il fatto che Allah “manda un solo soldato”, il virus, “e con un solo soldato ha colpito tutti e 50 gli Stati” in America costringendo Israele al lockdown e lasciando i palestinesi per lo più immuni, riporta Stalinsky.

Una delle prime dichiarazioni c’è stata a gennaio: una fatwa del religioso siriano Abdul Razzaq al Mahdi. Dice, al Mahdi, che ai musulmani è permesso pregare affinché il virus annichilisca i “nemici di Allah” cinesi per aver “ucciso, massacrato, imprigionato e oppresso gli uiguri”, la minoranza musulmana nella regione dello Xinjiang.

Lo Stato islamico sembra d’accordo con questa tesi, e sulla sua rivista al Naba ha pure definito le morti iraniane di coronavirus come un segno di Allah della “cecità” e “dell’insolenza” dei musulmani sciiti, che dovrebbero “abbandonare il politeismo”.

Abu Muhammad al Maqdisi, ulema con base in Giordania e mentore spirituale di Abu Musab al-Zarqawi, cioè l’ispiratore della seconda generazione di al Qaeda che avrebbe dato il via all’Isis, ha pubblicato invece una serie di messaggi su Telegram sui “benefici” della pandemia per le società musulmane. Questi includono la chiusura di bar e discoteche e il fatto che, per proteggersi dal virus, più donne si starebbero coprendo il viso col niqab. Più di recente ha aggiunto: “Nulla di sbagliato nel fatto che un musulmano preghi per la morte degli infedeli e desideri che contraggano il coronavirus”.

Il comandante jihadista siriano Asif Abdul Rahman ha invece sottolineato sul suo canale Telegram che l’Iran potrebbe usare i pazienti con coronavirus “vivi o morti” come un’arma biologica, come si dice che i mongoli abbiano fatto nel XIV° secolo, quando catapultarono i corpi delle vittime della peste nella città di Caffa (oggi Feodosia, la perla della Crimea). Forse il primo caso di guerra “batteriologica”. Le autorità iraniane, aggiunge, potrebbero convincere i pazienti a morire come martiri.

A ciò segue la minaccia dell’attivista considerato vicino ai Fratelli musulmani di New York Bahgat Sabre: in un video caricato il 1° marzo su Facebook ragiona sul fatto che, se si ammalasse, andrebbe al consolato egiziano a New York per infettare lo staff come vendetta contro il governo del Cairo, esortando altri a fare altrettanto.
La pandemia di coronavirus sta anche facendo sì che il network del jihadismo globale si concentri sul contenimento della diffusione nei suoi ranghi.

Pulire, igienizzare, misurare la febbre con costanza sono parte della quotidianità al tempo del Covid-19. Il numero del 12 marzo di Al Naba, il settimanale dell’Isis, include “linee guida della sharia per affrontare l’epidemia”, con infografica sul lavaggio delle mani e inviti alle quarantene per gli infetti. Il 18 marzo, la già affiliata Hayat Tahrir al Sham di al Qaeda (che si dichiara “entità indipendente” nonostante l’Onu abbia evidenziato contatti con la leadership dell’organizzazione madre) cita perfino le raccomandazioni dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie.

Insomma, mentre il mondo combatte il Covid-19, i jihadisti individuano vulnerabilità momentanee da sfruttare per la causa. Nel numero di al-Naba del 19 marzo, l’Isis avverte per esempio che non esiterà a trarre vantaggio dal caos, spiegando che le perdite finanziarie di crociati e tiranni – americani e alleati arabi – contribuiranno notevolmente “a indebolire le loro capacità di combattere i mujahidin”. (Più chiaro di così…).

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