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Crisi economica e responsabilità politica. La versione di Pilati

Di Antonio Pilati

La pandemia conclude nel dolore e nell’incertezza il secondo decennio del XXI secolo, un periodo drammatico che ha modificato, anzi sconvolto, il mondo ottimista che, dopo la fine dell’impero sovietico, si lanciava verso grandi traguardi di progresso: rivoluzione digitale condotta a passo di carica con la nascita dall’oggi al domani di grandi imprese-piattaforme che accelerano e ottimizzano la vita di tutti; crescita a ritmo frenetico della Cina, dell’India e dell’Estremo Oriente che portano quasi un miliardo di persone fuori dalla miseria; potente avanzamento, pur tra molte difficoltà, dell’Unione europea (euro, allargamento a Est; pervasiva estensione dell’acquis comunitario); vasta espansione dei commerci e picco della globalizzazione.

La crisi del 2008 blocca la visione felice, basata sull’idea – di stampo finanziario e molto americana – di avere sotto mano un serbatoio di risorse quasi infinito, e apre il decennio successivo con una risentita frustrazione. La Cina si svela, soprattutto dopo l’ascesa di Xi, un pericoloso rivale strategico con sorpresa degli americani che l’avevano immaginata come partner avviato alla democrazia sulla scia del successo di mercato. L’Europa scopre, nel fatale tornante del 2011 (fallimentare avventura in Libia; azione per disciplinare i conti in Italia temendo l’uscita fuori controllo del debito pubblico), che il suo impianto di regole e istituzioni è fatto per le fasi di crescita, ma non ha strumenti adeguati, anzi crea guai (Italia, Grecia) inasprendo divergenze e rancori fra le nazioni, quando le economie si avvitano nella crisi o emergono forti problemi politici. Sui due lati dell’Atlantico si lacera il tessuto sociale: produzioni di grande rilievo sono trasferite dai distretti industriali dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti a nazioni dove le regole operative (lavoro, ambiente) sono più lasche e i costi più bassi (Asia, Europa Orientale). I perdenti della globalizzazione si fanno sentire un po’ ovunque: arrivano Brexit, Trump, i successi in Europa dei partiti radicali (Tsipras, Grillo, Mélenchon, Lega). Molte nazioni si spaccano in due, massimamente gli Stati Uniti: élite cosmopolite contro perdenti arrabbiati, dai seguaci di Trump ai gilet gialli.

In questa congiuntura così aspra si aggrava l’angoscia. Si intravvede quasi una selezione naturale fra le nazioni: quelle che dispongono di uno Stato funzionante e credibile per i cittadini hanno buone chance, quelle con istituzioni arrugginite cadono in crescente affanno. L’Italia purtroppo fa parte della seconda categoria. Quello che si è aperto con lo strappo di novembre 2011 e che probabilmente durerà con il dopo-pandemia almeno fino al 2022-23 è un periodo di declino e talvolta di degrado.

L’economia è rimasta stagnante, non si è ripresa dallo shock del 2008: Pil in calo, alta disoccupazione, cervelli in fuga, crescente ricchezza assorbita dal fisco ma debito sempre elevato, un gran numero di settori che reggono con fatica. Aumentano gli adempimenti, le sanzioni, gli obblighi amministrativi, trionfa il centralismo vincolista che scrive male le norme, non ha interesse per la crescita e fa credere che l’evasione, il contante o la corruzione siano i problemi determinanti. L’assetto istituzionale vive una significativa torsione: il Parlamento perde rilievo, sempre più ampia influenza tocca alla magistratura, alla Corte Costituzionale, alla Presidenza della Repubblica.

La politica ha in ciò gravi responsabilità: non ha dato un indirizzo al Paese, non ha saputo trattenere gruppi d’interesse e centri di potere. Dal 2011 a oggi il timone del governo è stato quasi sempre nelle mani del Pd: per più di cinque anni – sui quasi nove del periodo – ha espresso il presidente del Consiglio e la gran parte dei ministri; per altri due ha tenuto la guida politica del governo con un premier tecnico molto amico (Monti e Conte 2). L’unica eccezione è stato il governo gialloverde peraltro finito quasi subito nella bufera. Il fatto curioso è che il Pd, giunto al potere nel 2011 con una trama dei Palazzi (interni ed esterni), è rimasto al potere pur essendo sempre bocciato dal giudizio dei cittadini: elezioni del 2013 (3,5 milioni di voti rispetto al 2008), referendum del 2016 sulla riforma costituzionale, elezioni del 2018 (2,5 milioni rispetto al 2013). In realtà il governo è sempre arrivato attraverso accordi di corridoio: il soccorso (2013) degli scissionisti di Forza Italia che hanno tenuto in piedi la legislatura e il predominio Pd, il brusco approdo dei grillini alla normalità europeista (estate 2019).

La debole legittimazione popolare ha prodotto conseguenze. La principale è la dipendenza dalle istituzioni comunitarie e dalle maggiori potenze continentali: l’ideologia Ue è il vero collante dei governi del periodo e l’azione di Bce (“whatever it takes”) e Commissione l’asse di sostegno di un Paese sempre più fragile e sempre meno rilevante nel mondo. La seconda è l’adesione, spesso entusiasta, alla visione regolatoria che prevale a Bruxelles: c’è un feticismo della norma, l’idea che una regolazione dettagliata risolva i problemi, faccia funzionare l’economia e migliori la vita collettiva. L’impulso a disegnare un perfetto castello di norme sembra quasi assolvere dall’obbligo di cercare il consenso: chi sa non va troppo disturbato. La terza conseguenza è l’ascesa dell’amministrazione – il mondo che fa le norme e ne vigila l’esecuzione – a ceto fondamentale, cuore della società: chi produce, potenziale evasore, conta di meno.

Da questo mix culturale deriva stagnazione: porta a scordare che l’ultima riga (di bilancio) è quella che fa la differenza e divide le società che, rispettandola, progrediscono da quelle che, ignorandola, affondano. La pandemia, con il suo carico di vincoli e sorveglianza, ha aggravato le cose: toglie fiducia, riduce gli sforzi, ci trasforma in un Paese che elemosina fondi, prestiti, aiuti.

È ora di chiedere alla politica un cambio mentale: meno regole, meno paura di chi fa, più iniziativa, più indipendenza nazionale. Altrimenti si crolla.

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