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Dalla Cina alla Libia. Gli interessi della Germania (e le convergenze con l’Italia) secondo Mesini

Sebbene la Germania fatichi ad assumersi maggiori responsabilità nel contesto della Nato e della Difesa europea, non molla l’ambizione di essere grande mediatore tra Stati Uniti e Cina. Intanto, nell’ambito dell’Ue, è l’interlocutore principale per l’Italia affinché Bruxelles non abbassi le risorse previste per fronteggiare la crisi da Covid-19. È il quadro descritto Lorenzo Mesini, dottorando in Storia delle dottrine politiche presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, esperto di politiche europee e di Germania. Formiche.net lo ha contattato dopo il vertice di ieri tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’omologo tedesco Heiko Maas. L’attenzione resta tutta per il “Next Generation Eu” proposto dalla Commissione (comprensivo del Recovery Fund) e che ha diviso gli Stati membri nell’ultimo Consiglio europeo dello scorso venerdì. Eppure, sono tanti i punti caldi nel rapporto tra Italia e Germania, dalla Libia, fino ai rapporti del Vecchio continente con la Cina.

In cima all’agenda del vertice tra Di Maio e Haas c’era il piano di Bruxelles per affrontare la crisi da Covid-19. Sembra che gli interessi italiani sul tema passino da Berlino. È così?

Berlino è centrale per gli interessi italiani dal momento che la sostenibilità finanziaria del nostro debito passa dal braccio di ferro tra le istituzioni tedesche da una parte (Bundesbank e Corte costituzionale tedesca) e quelle europee dall’altra (Bce e Corte di giustizia dell’Ue). Sul Recovery Fund proposto dalla Commissione europea, ci sono ancora divergenze tra gli Stati membri. Italia e Germania sono entrambe d’accordo su un principio generale: dalla crisi si esce solo con una maggiore integrazione e con il maggiore impegno delle istituzioni europee. Tuttavia, come ha dimostrato il Consiglio europeo di venerdì scorso, nonostante la convergenze sui principi, ci sono ancora divergenze da colmare. Servirà un duro lavoro negoziale.

Come lo fu d’altra parte a febbraio, con lo scontro tra “i quattro frugali” e “gli amici della coesione”. Come si colloca la Germania in questa divisione che persiste tra gli Stati membri?

La Germania occupa una posizione ambivalente e fatica a collocarsi in questo contesto. Da un lato, per tradizione, affinità e cultura politica, si sente più vicina alle richieste dei Paesi frugali e anseatici. Dall’altro, ritiene che la crisi odierna sia talmente eccezionale da rendere controproducente ogni ipotesi di portare avanti misure di austerità. In tal senso, Angela Merkel ha messo in campo una tattica che si potrebbe definire di “difesa elastica”, consapevole che un approccio rigido sarebbe disastroso. Sono sulla stessa linea sia la Confindustria tedesca (Bdi), sia la Cdu, sebbene rimanga una parte del ceto politico che fatica ad accettare per via della crisi una cambio di rotta così rapido. La posizione della Germania appare dunque complicata.

Tra i temi del vertice, anche la Libia, con la visita al quartier generale della missione Irini. La Germania (e con lei l’Ue) ha ancora un peso specifico nel complesso dossier libico?

Proprio ieri, il ministro Maas ha ribadito che la missione Irini è di fondamentale importanza e che deve essere rafforzata. Tuttavia, per l’Europa lo spazio per poter contare sulla Libia appare sempre più ristretto. Un conto è organizzare summit e conferenze; un altro è, come fanno Egitto e Turchia, sostenere con le armi le parti che si fronteggiano sul territorio. La stessa Irini ha avuto dei problemi. È partita e si è sviluppata con grandi auspici, per di più in un settore che per la Germania rappresenta un impegno inedito. Eppure, fino ad ora, non abbiamo visto grandi risultati.

Si possono incrementare con il potenziamento delle relazioni con i tedeschi?

Da parte italiana, il rafforzamento dei rapporti con Berlino in chiave bilaterale potrebbe sicuramente generare risultati importanti. C’è però ancora molta strada da fare, tra l’altra in tempi molto brevi considerando la rapida evoluzione della crisi libica a cui stiamo assistendo.

Intanto, Trump ha confermato l’ipotesi di riduzione (da 34.500 a 25mila unità) della presenza Usa in Germania. Come hanno preso a Berlino la notizia?

A Berlino c’è molta preoccupazione. L’asse con Washington è fondamentale dal 1949, tradizionalmente centrale della definizione degli interessi e nella collocazione sullo scenario internazionale. Al tempo stesso, però, non si nota ancora una risposta concreta da parte dei tedeschi alla sfida posta da Washington. La Germania fa molta fatica, sia per la costruzione del consenso interno, sia per cultura politica, ad aumentare le spese militari e ad assumersi maggiori responsabilità nel contesto Nato. Quando Macron sentenziò la “morte cerebrale” dell’Alleanza, da Berlino arrivarono subito reazioni fredde. Ora, la Germania appare presa contropiede dall’ipotesi di parziale ritiro americano dal proprio territorio.

L’eventuale disimpegno Usa non potrebbe dare spinta alla Difesa europea e permettere alla Germania di sfruttarlo?

Sicuramente la Germania ha lo spazio economico per un impegno maggiore nel settore della Difesa. A differenza di altri, non è arrivata col fiatone all’appuntamento con la crisi da Covid-19. Tuttavia, per approccio e cultura politica, fa fatica ad assumersi troppe responsabilità in questo campo. Tra l’altro, la sfida è tutto sommato recente, dalla fine del 2016. La politica tedesca è capace di adattarsi, ma deve seguire le logiche dettate dalla tradizionale dottrina di politica estera. Inoltre, sul fronte Ue lo scenario per la Difesa europea non è proprio incoraggiante. Dalla proposta da 13 miliardi di euro della Commissione europea (giugno 2018, ndr) per il prossimo European Defence Fund (Edf) si è passati ai 6 miliardi con la presidenza finlandese, e ora si discute su una proposta di 8 miliardi. Tutto ciò non denota una maggiore assunzione di responsabilità.

Eppure, sui grandi temi della politica internazionale, la Germania sembra essersi proposta come mediatore dei rapporti tra Stati Uniti e Cina. È un ruolo plausibile?

Non dimentichiamoci che la Cina è il primo partner commerciale della Germania da almeno tre o quattro anni. Berlino tiene moltissimo a recuperare il suo rapporto con Pechino, piuttosto critico in tempi di competizione con gli Stati Uniti. Leggendo il documento della Bdi relativo all’accordo commerciale con i cinesi si nota la forte posizione tedesca sulla volontà di negoziare con chiarezza alcuni aspetti, soprattutto in termini di difesa degli interessi europei da eventuali scalate ostili. Anche su questo c’è un ampio dibattito interno. Da una parte, ci sono gli scettici, che puntano sul rapporto atlantico e guardano con sospetto alla Cina. Dall’altro, c’è chi spinge molto per un nuovo quadro istituzionale che regoli i rapporti tra Cina e Unione europea, dove per Unione europea si intende soprattutto la Germania. È il primo partner commerciale, e questo pesa molto nell’evoluzione dei rapporti.

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