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Guerra Fredda? L’Italia resti al suo posto. La versione di Spannaus

Di Andrew Spannaus

Con la presidenza Trump l’approccio americano alla Cina è cambiato. L’illusione che l’apertura economica della globalizzazione avrebbe portato anche all’apertura politica non c’è più, e quindi si corre ai ripari, tentando di evitare che l’ascesa cinese diventi davvero una minaccia strategica per il mondo occidentale.

In una campagna elettorale difficile, Trump ha bisogno di riprendere la battaglia contro chi più di tutti danneggia gli Stati Uniti. La Cina è in cima alla lista, dalla politica economica post globalizzazione al virus.

È in parte un modo per spostare l’attenzione dagli errori commessi dalla Casa Bianca. Ma si tratta di un cambiamento generale, che alimenta di giorno in giorno un clima da Guerra fredda. Washington sta mettendo dei paletti, dimostra di fare sul serio, mette Pechino sulla difensiva.

All’interno dell’amministrazione esistono più fazioni sulla Cina. Trump non è fra i più aggressivi. Preferisce ricorrere al suo metodo solito: parole forti, azioni mirate, per poi trattare. Prima alza la posta, poi lancia un’esca, come l’annuncio della visita di Mark Esper in Cina, un modo per ripristinare il dialogo dopo le tensioni.

Poi c’è un’offensiva coordinata da diversi settori del governo federale, di cui Pompeo rappresenta la punta più affilata. Ovviamente questa escalation ha e avrà delle conseguenze, lo stiamo vedendo in questi giorni con le rappresaglie diplomatiche.

La spirale si è ormai estesa al piano militare. I nervi sono particolarmente tesi, soprattutto intorno alla vicenda di Taiwan. Entrambe le parti devono far vedere che fanno sul serio, ma anche evitare incidenti che possono innescare un pericoloso scontro frontale.

L’Europa rischia di rimanere schiacciata in mezzo ai due blocchi. È per natura più vicina agli Stati Uniti, ma non vuole perdere i benefici dei rapporti con la Cina. L’Italia segue lo stesso andamento. Si muove esitante, recepisce le preoccupazioni dell’alleato ma non vuole impegnarsi in un distacco totale dalle tecnologie e dai capitali di Pechino.

Roma fa bene a mantenere una posizione di pontiere. Lo ha sempre fatto verso altri Paesi, Russia, Mediterraneo, Balcani. Una chiusura totale non conviene, e di questo sono convinti in molti, anche negli Usa. Ovviamente per rimanere in equilibrio l’Italia è chiamata a un delicato lavoro diplomatico che non è facilitato dal momento di duro confronto.

Da alleato storico il Paese deve interpretare la dialettica a Washington, ma anche offrire passi concreti di fronte agli altri suoi interlocutori diplomatici. Nessuno vuole trovarsi di fronte a una scelta drastica, “o noi, o loro”. Urge una ricognizione ampia di come il sistema-Italia si rapporti con la Cina, per mettere nero su bianco una linea credibile, quandanche non dovesse combaciare alla perfezione con quella americana.

È un lavoro delicato che non deve rimanere confinato all’ambito diplomatico, bensì estendersi ai legami industriali, commerciali, tecnologici con i due Paesi. Cercando di mantenere, dove possibile, un filo di autonomia. La pandemia ha messo a nudo l’urgenza di rilanciare le filiere nazionali, nel segno della resilienza e della sicurezza nazionale. Un monito che riguarda da vicino anche l’Italia.

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