Skip to main content

Nazionalismo? Non sempre è un male. Il dibattito al Brussels Forum

Secondo l’ultimo report di Freedom House, il 2019 è stato il quattordicesimo anno di fila di declino della democrazia nel mondo. 64 Paesi hanno subìto un deterioramento di diritti e libertà civili, contro i 36 che hanno progredito. Questo accade principalmente, secondo l’organizzazione, perché forze nazionaliste e autocratiche continuano l’opera di marginalizzazione di minoranze etniche, religiose, e via discorrendo.

Viste le premesse, molti commentatori hanno gioco facile a condannare il nazionalismo in tutte le sue forme; eppure il trend evidenzia come l’ideologia nazionalista stia prendendo piede ovunque. Ne segue che la questione non può essere semplicemente accantonata.

La pandemia ha rinvigorito ulteriormente il discorso su confini, governance globale e identità politica, e il giudizio accademico sul nazionalismo sembra essere tutto fuorché uniforme. Gli Stati-nazione sono stati i responsabili della protezione dei loro cittadini come anche dell’esclusione di una parte di essi.

Nella cornice del Brussels Forum si è svolto un dibattito virtuale incentrato, appunto, sulla natura del nazionalismo, sulla possibilità di una sua ridefinizione e sulle sue ramificazioni. Due professori universitari in difesa del nazionalismo si sono confrontati con due scrittori schierati in prima linea nella battaglia contro di esso. La domanda: può il nazionalismo essere una forza positiva?

“Leader politici in tutto il mondo evocano un nazionalismo escludente, associato con discriminazione, divisione e distruzione. Ma può anche essere un potente strumento benevolo. È essenzialmente amore per la patria, solidarietà condivisa e un senso di “noi” che correla il mio benessere personale con quello dell’intera comunità nazionale”. Così ha aperto Prerna Singh, professoressa di scienze politiche alla Brown University e oratrice schierata a favore del nazionalismo.

Pur definendosi progressista, Singh ha ravvisato nel nazionalismo il potere di operare come un potente collante sociale, pienamente compatibile con i dettami della democrazia liberale. Storicamente, ha continuato, il nazionalismo è stato un antidoto contro le occupazioni coloniali, come nella sua natìa India, e ha ispirato movimenti come quello di Mandela in Sudafrica, o Solidarność in Polonia; è la forza più indicata per il progresso perché in sincrono con la volontà popolare, e può motivare sacrifici di tempo, spazio e addirittura vite per la causa comune.

“Dobbiamo combattere per riappropriarcene e farlo progredire in un “noi” nazionale più inclusivo,” ha concluso Singh, “non possiamo lasciarlo ai populisti di destra”.

Subito dopo, la scrittrice turca Elif Shafak è intervenuta a gamba tesa. “I nazionalisti vi diranno che ci sono tipi diversi di nazionalismo, che alcuni di essi sono buoni e inoffensivi e che le versioni degli altri sono quelle negative; ma lì fuori, sulle strade, è una forza selvaggia”.

Shafak, che dopo aver scritto un libro sul genocidio armeno è stata processata come traditrice per aver “insultato l’identità turca”, ha sottolineato la dualità insita nel cuore del nazionalismo: un “noi” contro “loro” e il presupposto che i primi siano, in qualche modo, migliori degli altri. “Noi che veniamo dai Balcani, dall’Anatolia o dal Medio Oriente sappiamo bene che non ci vuole molto perché il nazionalismo diventi distruttivo”, ha commentato.

Eppure, la specie umana non ha trovato una forma migliore di governo dello stato-nazione, ha risposto Colin Dueck, professore della George Maso University; come si può sostenere uno stato costituzionalista e autogovernante senza un’identità nazionale? L’autore Andrew Keen ha controbattuto che nel ventunesimo secolo, globalizzato e frammentato com’è, i confini hanno perso il loro senso, che l’idea tradizionale di nazione non si conforma con la realtà odierna; in parole sue, “gli abitanti di Berlino, Budapest e Los Angeles hanno più cose in comune tra di loro che con il territorio che li circonda.”

Di contro, Dueck ha fatto notare come gli elettori rurali, in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, non si sono sentiti rappresentati dalle loro classi dirigenti, e hanno trovato conforto proprio nel nazionalismo: da qui Brexit e Trump.

Singh ha quindi rimarcato l’importanza dell’identità nazionale, notando come questa sia cresciuta durante la pandemia: “Gli italiani che cantavano inni dai balconi, il distanziamento sociale per debellare la pandemia insieme: quelle sono una versione di nazionalismo.”

E Shafek ha colto la palla al balzo per operare un distinguo semantico tra patriottismo e nazionalismo, l’uno più proprio e nobile, l’altro un’aberrazione con radici xenofobe. “I teorici del nazionalismo sono impegnati a scrivere la storia di un popolo, ma dimenticano, o peggio, cancellano quello delle minoranze.” Secondo la scrittrice, si può semplicemente amare la propria patria senza dover essere nazionalisti.

Dunque, come sarebbe uno Stato privo di nazionalismo? Keen ha commentato che i canadesi, per esempio, hanno capito che l’identità nazionalistica è essenzialmente irrilevante all’infuori dagli sport. E Singh ha controbattuto che gli indiani musulmani, recentemente vittime di un tentativo di ostracismo da parte del governo, si sono ammantati del tricolore indiano e sono scesi in piazza cantando inni nazionali.

Pericoloso, ha commentato Shafek, martellare sul nazionalismo in un Paese in cui la multiculturalità è chiave. “Se l’identità nazionale è la colla con cui unire le persone, che tipo di identità dovremmo proporre in Turchia, quella turca? Come pensate che reagirebbero i curdi? Non gli riconosciamo nemmeno il diritto di imparare e parlare nella loro lingua madre. Quando si usa il nazionalismo come ombrello per riunire le persone, immediatamente si iniziano a escluderne.”

×

Iscriviti alla newsletter