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Cosa c’è dietro il nuovo attentato a Charlie Hebdo. L’analisi di Ricci

Di Alessandro Ricci

L’attentato di due giorni fa a Parigi è avvenuto in boulevard Richard Lenoir, di fronte alla sede di Charlie Hebdo. La cosa non è sfuggita a molti media occidentali e in effetti il nesso sembra netto e immediato, soprattutto tenendo conto degli avvenimenti accaduti nelle ultime due settimane.

L’attacco è stato sferrato da un pakistano di 18 anni, già conosciuto dalla polizia per reati comuni, che dopo aver colpito con un’ascia una coppia di giovani ferma in strada, ha tentato la fuga ed è stato poi fermato dalle forze di polizia, che stanno indagando anche su altri possibili complici.

Tutti ricordiamo gli attentati da parte di Saïd e Chérif Kouachi del 7 gennaio nella redazione del giornale satirico in risposta alle vignette su Maometto e di buon anno da parte di Abu Bakr Al Baghdadi. Gli attacchi furono seguiti da quelli nel ristorante kosher del 9 gennaio 2015, con il jihadista Amédy Coulibaly coinvolto direttamente e che lasciò un video pre-registrato di rivendicazione degli attacchi, ribadendo la logica belligerante di quelle uccisioni rispetto a quanto la Francia stava facendo contro lo Stato Islamico.

Il bilancio finale fu di 17 morti, tra membri della redazione del giornale, poliziotti e commessi del supermercato. Furono i primi momenti di un anno che terminò con gli attentati congiunti del 13 novembre, in seguito ai quali Hollande dichiarò guerra allo Stato Islamico. Due sembrano essere gli avvenimenti che si legano vicendevolmente al nuovo attacco.

Il primo è il processo avviato un paio di settimane fa alle persone coinvolte negli attentati proprio a Charlie Hebdo di cinque anni fa. Gli autori degli attacchi terroristici, com’è noto, rimasero invece vittime degli scontri con le forze armate francesi. L’attentato dunque potrebbe essere una risposta al processo nel tentativo di rimarcare la logica propria dello Stato Islamico, anche stando al messaggio ultimo lasciato dal Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi, proprio in una non casuale coincidenza temporale con l’inizio del processo a chi contribuì alla strage di 5 anni fa.

Il secondo, strettamente connesso al primo, è la recente riproposizione delle vignette che avevano destato scandalo cinque anni fa e che sono state ripubblicate dal giornale francese il primo settembre, accompagnate dal titolo Tout ça pour ça (“Tutto questo per cosa?”), volendo così rivendicare la libertà di espressione nonostante gli accadimenti tragici, ricordando esplicitamente gli attentati alla vigilia proprio del processo e reclamando così la libertà di esprimersi anche in maniera dissacrante.

La scelta di Charlie Hebdo non è stata esente da reazioni pubbliche e istituzionali nel mondo islamico, che hanno coinvolto soprattutto il Pakistan: alle manifestazioni di piazza nel Kashmir, infatti, con tanto di bandiera francese bruciata e avvertimenti contro chi deride l’immagine di Maometto, hanno fatto seguito anche le dichiarazioni da parte del Ministro degli Esteri pakistano, Shah Mahmood Qureshi, che ha duramente condannato l’immagine di Charlie Hebdo che aveva dichiarato di sperare che gli autori fossero condannati davanti a un tribunale.

Il fatto che l’attentatore sia proprio un pakistano non è, evidentemente casuale. Così come non è casuale la scelta della geografia del terrore utilizzata, la strada della sede di Charlie Hebdo così contestata proprio in Pakistan e oggetto degli attacchi di 5 anni di cui sta svolgendo il processo in questi giorni.

Non si tratta di attacchi derivanti da malattie psichiatriche, come qualcuno ipotizza, ma di attentati che seguono una precisa logica politico-religiosa, come d’altronde ha dichiarato la polizia francese parlando di azione terroristica e, usando le parole del ministro dell’Interno Gérald Darmanin, di un “attacco islamista”.

Com’è evidente, i due antefatti qui riportati si legano reciprocamente e sembrano essere alla base delle ragioni dell’attentatore pakistano, in un periodo in cui gli attentati sembravano essere stati dimenticati per via del Covid ma in cui il fronte jihadista ha serrato i ranghi e, da più parti, ha fatto appello a colpire l’Occidente e ad approfittare proprio del periodo pandemico e del caos che questo ha comportato.

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