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I Balcani 30 anni dopo. Difficoltà e nuove sfide

Di Matteo Tacconi

Economia fragile, regressione democratica, i Balcani occidentali sembrano intrappolati in un limbo. È compito dell’Ue porre fine alla stagnazione nella regione. L’approfondimento di Matteo Tacconi, giornalista free-lance ed analista della Ndcf

Sono passati quasi trent’anni dall’inizio delle guerre che condussero alla dissoluzione della Jugoslavia e dal collasso del regime comunista in Albania. L’allargamento della NATO nell’area balcanica, durante questo periodo, è andato avanti con costanza. Slovenia, Albania, Croazia e Montenegro sono entrare nell’Alleanza. Quello europeo, invece, ha avuto ritmo più lento. Solo Slovenia e Croazia hanno aderito all’Ue, nel 2004 e nel 2013 rispettivamente. Nei Balcani occidentali, ossia l’area ex jugoslava e l’Albania escluse Slovenia e Croazia, la situazione è abbastanza stagnante.

Serbia e Montenegro hanno avviato i negoziati per l’adesione, ma il processo non ingrana: ci vorrà più tempo del previsto. L’Albania e la Nord Macedonia sono in procinto di aprirli, dopo che il Consiglio Europeo ha finalmente dato il via libera lo scorso marzo 2020. Il percorso durerà almeno dieci anni, a voler essere ottimisti. Quanto a Bosnia Erzegovina e Kossovo, i negoziati sono un orizzonte lontano.

I Balcani occidentali stanno affrontando tempi difficili. Lo scenario economico, sempre più fragile, sta costringendo un numero crescente di persone a lasciare la regione; si emigra per lo più nell’Europa occidentale, per primi i giovani di talento. È un processo devastante dal punto di vista socio-economico, che rende ancora più flebile la speranza di accorciare la distanza con i paesi Ue.

Accanto al precario quadro economico, emerge la regressione democratica: anch’essa minaccia il futuro della regione. Il rispetto dello stato di diritto e della separazione tra poteri, della libertà di stampa e del principio di decentramento amministrativo è soggetto a erosioni in tutta l’area, specialmente in Serbia, Montenegro e Albania, come più osservatori hanno registrato.

Un altro potenziale fattore destabilizzante è quello, mai arrestatosi in questi anni, del flusso di migranti, i quali in fuga da varie crisi e paesi, principalmente quelli mediorientali, attraversano la regione per raggiungere il territorio europeo. I governi dei Balcani occidentali non hanno le risorse finanziarie e organizzative per gestire questo fenomeno che, al momento, trova nella Bosnia Erzegovina la strozzatura sulla rotta balcanica. Alla questione umanitaria si affianca l’impatto politico sul paese di transito e difatti la Bosnia Erzegovina, che già sconta un assetto istituzionale claudicante, si è divisa sul tema. Non è da escludere che la questione migratoria possa infiammare, in futuro, alcuni dei paesi limitrofi.

Anche i giochi geopolitici scuotono la regione, facendo vacillare il ruolo di Bruxelles come forza stabilizzatrice. Fino a qualche tempo fa nessuno lo metteva in discussione, ma adesso Russia e Turchia tentano di accrescere la loro influenza con una miscela di potenza morbida, investimenti infrastrutturali ed energetici, pressioni politiche e strumenti ibridi. Una risorsa, quest’ultima, in cui Mosca sa eccellere. La Cina, dal canto suo, sta cercando di fare dei Balcani occidentali uno snodo cruciale per la Belt and Road Initiative. Pechino, a tale scopo, gioca la carta delle infrastrutture.

Infine ci sono gli Stati Uniti. Dopo anni di profilo basso, sono tornati con decisione nei Balcani occidentali reclamando un ruolo forte nel dialogo tra Serbia e Kosovo, gestito dall’Europa nell’ultimo decennio. Il nuovo impegno americano potrebbe anche essere un’occasione di rilancio dell’integrazione europea; d’altro canto, il pilastro americano e atlantico ha sempre svolto questa funzione, però al momento tra Washington e Bruxelles prevale la competizione, più che lo spirito di collaborazione. Non pochi esperti hanno visto nel recente sforzo americano per la normalizzazione dei rapporti economici tra Pristina e Belgrado una manovra dal sapore prevalentemente elettorale.

I Balcani occidentali sembrano come intrappolati in un limbo. È prima di tutto compito dell’Ue, il primo creditore, partner commerciale ed il primo interlocutore politico, porre fine alla stagnazione nella regione: è giunto il momento di accentuare il profilo di “fornitrice di democrazia”. Bruxelles è tenuta a prendere di petto, più di quanto fatto sinora, questioni essenziali quali lo stato di diritto, la trasparenza amministrativa, la corruzione, i diritti delle minoranze: tutti temi di cui i governi dei Balcani occidentali stanno avendo poca cura. L’Europa deve sollecitare un cambio di rotta, e non solo perché è fondamentale per la democrazia; da qui passa anche la crescita economica, e dunque il freno all’emigrazione giovanile e agli squilibri socio-economici. Tra democrazia ed economia il nesso è e dev’essere forte.

La pandemia da coronavirus rende l’azione ancora più urgente, se è vero che la crisi sanitaria potrebbe accelerare le disuguaglianze socio-economiche. Secondo uno studio della Banca Mondiale, più di 400.000 persone potrebbero ritrovarsi sotto la soglia della povertà, e il perimetro della classe medio-alta potrebbe contrarsi del 2-10%, a seconda del Paese in questione e della durata della pandemia.

L’Europa non esercita la sua egemonia: è contro la sua natura. Il soft power ed il dialogo sono e rimangono gli strumenti a disposizione per dare nuova linfa all’integrazione europea, verso la quale le società dei Balcani occidentali restano favorevoli. A differenza della Commissione, che nel corso degli anni ha dimostrato di essere quasi sempre concentrata sull’allargamento ai Balcani occidentali, benché incalzata da crisi e vertenze notevoli (governance dell’Eurozona, Brexit e ora la pandemia), gli Stati Membri non hanno avuto costanza nel cucire un’iniziativa efficace, inclusiva e tempestiva. La fatica da allargamento palesatasi dopo la storica espansione territoriale europea verso Est, nel 2004, costituisce ancora un macigno. La nuova metodologia per l’allargamento, lanciata dalla Commissione su impulso del presidente francese Emmanuel Macron, potrebbe in teoria rimuoverlo. Il meccanismo, prima basato sulla progressiva apertura di capitoli negoziali, ha ora una natura molto più politica, il che testimonia l’attenzione e la preoccupazione crescenti, da parte europea, per la situazione democratica nei Balcani occidentali.

Potrà funzionare? È certamente un processo biunivoco, di corresponsabilità. Da una parte, i leader dei Balcani occidentali devono evidenziare la volontà – vera, non più di facciata – di produrre riforme. Dall’altra, gli Stati Membri sono tenuti ad assecondare la Commissione: la nuova metodologia per l’allargamento non può essere solo un foglio di carta.

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