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Dalla moltitudine al popolo. La riflessione del prof. Montanari

Di Bruno Montanari

Alessandro Corbino prospetta, con argomenti ineccepibili, una necessaria e non più procrastinabile riforma del nostro sistema rappresentativo parlamentare, a partire dalla presa d’atto che l’attuale frammentazione sociale rende inutilizzabile, al di là delle forme, il congegno nato dalla Costituzione repubblicana del secondo dopoguerra.

Per operare nella direzione indicata da Corbino occorrono tre premesse: che esista un “sistema rappresentativo”, che esista una società rappresentabile e che esista un ambiente umano intellettualmente adeguato allo scopo.

Purtroppo nessuna di queste tre premesse esiste. La prima: non esiste più una realtà politico-giuridica pensabile come “sistema”, poiché al concetto di “ordine – ordinamento” si è sostituito di fatto, progressivamente ed inavvertitamente, quello di “complessità – equilibrio”. E questo è avvenuto per prassi quotidiana: senza intervenire espressamente sulle forme di qualificazione, ma operando pragmaticamente, modificandone di fatto, appunto, la sostanza.

La seconda: come dice lo stesso Corbino, ci troviamo di fronte ad un ambiente umano talmente frammentato che, aggiungo io, è difficile identificarlo financo come “società”. Ciò che appare è una inedita configurazione della “massa”. L’elemento aggregante e unificante in modo indifferenziato (come appunto è la configurazione otto-novecentesca della “massa”) sta, paradossalmente, nella aggregazione dell’egoismo individualistico.

La terza: è sotto gli occhi di tutti l’assenza di una classe politica, di fatto operativa, dotata di quella statura intellettuale, capace di rifarsi alla cultura del diritto, idonea ad intraprendere una riforma di sistema. O meglio, persone capaci vi sarebbero, ma o sono ormai sorpassate per età o non vogliono impegnarsi in una impresa che li mescolerebbe ad un ambiente del tutto inadeguato, subendone magari anche contraccolpi sgradevoli. Come dire: “Chi ce lo fa fare!”

La domanda è: come è spiegabile una tale condizione? Andiamo per ordine.

Da sempre, la storia ha mostrato una distinzione-chiave; quella tra governanti e governati. Distinzione che ha avuto nei secoli diverse configurazioni e relative teorizzazioni, che ritengo siano abbondantemente note. Vi è però un passaggio che intendo sottolineare, poiché è la chiave della questione che dobbiamo affrontare oggi: il passaggio dalla sudditanza alla cittadinanza; il passaggio dalla moltitudine senza volto e senza nome del tutto estranea alla gestione del governo, alla società di cittadini con poteri di autogoverno, secondo modalità diverse per riconoscimento soggettivo e partecipativo. Per essere semplice e schematico, individuo questo passaggio negli eventi che hanno segnato l’800 postrivoluzionario ed il 900. In altre parole è il passaggio che trasforma la moltitudine anonima in un “popolo” rappresentabile (che si chiami borghesia, classe operaia, ceto medio e relative articolazioni, egemonie e tensioni dialettiche o bilanciamenti in questo caso non fa differenza). Questo “popolo” è divenuto titolare della funzione elettorale come strumento di autogoverno. Qui emerge un ulteriore aspetto strettamente legato all’esercizio della funzione elettorale: la sua rappresentabilità attraverso formazioni intermedie, capaci di ridurre le istanze individualistiche della base attraverso operazioni di sintesi ideal-progettuali chiamate “programmi politici”. Queste formazioni intermedie sono state principalmente i partiti, che nell’800 nascono come club di natura prevalentemente politico-intellettuale di tipo borghese e nel ‘900, sotto la spinta della “classe operaia”, si trasformano in quelle soggettività politiche, divenute l’insostituibile fattore di intermediazione elettorale (non faccio riferimento ai sindacati perché non sono strumenti di intermediazione elettorale).

È a partire da questo quadro tracciato sommariamente che occorre ragionare sull’oggi, avendo come punto di riferimento, solo per cominciare, due fattori: il venir meno dell’Unione Sovietica con l’evaporazione dell’ideologia comunista e il mutamento della forma partito.

Primo fattore: la fine del comunismo. Essa ha generato l’affermazione, inorgoglita dall’idea di “vittoria” sul nemico comunista, non dell’idea liberale classica, ma del suo aggiornamento in un capitalismo non borghese, ma divenuto, tra gli anni ’90 e 2000, sempre più puramente finanziario.

Secondo fattore: il mutamento della forma partito in formazioni personalistiche, caratterizzate da due entità umane, il “capo” e i “seguaci”.

Questi due fattori sono il prodotto di mutamenti che ritengo più profondi e inavvertiti dal cosiddetto “popolo”, titolare del diritto-dovere elettorale.

Primo: l’affermarsi, cui ho fatto cenno, di una mentalità pragmatico-negoziale, che di fatto destruttura il diritto come ordinamento giuridico. Ma questo è un argomento per “addetti ai lavori”.

Secondo: l’avvento e il radicamento del processo di globalizzazione che rende materialmente effettiva l’affermazione del capitalismo finanziario: la moneta non ha confini né territori. Questa affermazione ha per conseguenza l’impoverimento della politica e del relativo potere progettuale ed anche ideale. La polis (comunque la si voglia configurare nei secoli), infatti, ha confini e territori; il simbolo della concretizzazione storica della politica dal ‘600 fino al nostro è stato la Stato detto “moderno”.

A questi due fattori se ne aggiunge un terzo che ha funzionato da moltiplicatore degli effetti, poiché ha reso ancor più effettiva ed incisiva la globalizzazione finanziaria: il Web. Esso, infatti, è la realizzazione di un mondo senza territori e confini; un mondo concreto e al tempo stesso immateriale. La conseguenza più immediata è la modificazione che questo ha prodotto sulla informazione e comunicazione in senso tradizionale.

La concatenazione di questi tre fattori, dei quali il terzo è l’esaltazione degli altri due, ha inciso in modo decisivo sull’idea di “popolo” affermatasi tra ‘8 e ‘900, producendone la de-soggettivazione, senza tuttavia modificarne il potere elettorale. Vediamo; il passaggio è delicato.

Il potere elettorale del popolo, dal secondo dopoguerra in poi con suffragio universale, si è fondato sul ruolo di intermediazione cultural-politica dei partiti, autori della necessaria divulgazione del relativo messaggio politico, normalmente anche secondo modalità propagandistiche. La comunicazione via Web ha modificato l’impostazione comunicativa, che si è concentrata sulla creazione di una “star”, la cui luce deve abbagliare i destinatari del messaggio. “Abbagliare” significa non far pensare, ma indurre a seguire; inoltre, ogni destinatario è abbagliato nella sua singolarità. Due conseguenze: la “star” è il “capo”, e un capo ha solo “seguaci” (come ho più sopra detto); una “star” che abbaglia non rende liberi, ma sottomette rassicurando. È il Leviatano di Hobbes, che non emette più proclami, ma “cinguetta”.

All’inizio degli anni ’70, in piena crescita consumistica e in presenza di tensioni sociali rilevanti, emblematica fu una espressione di Marcuse, contenuta all’inizio dell’Uomo a una dimensione, che suonava più o meno così: “la società ha scambiato la libertà con il benessere”; dal ’90 in poi, e soprattutto oggi, in un mondo che il Web ha reso privo di qualsivoglia vincolo e senza l’incubo del comunismo (nemmeno di quello cinese), quella frase potrebbe suonare così: “la società ha scambiato la libertà con la sicurezza”.

Coerentemente anche il messaggio propagandistico si modifica; esso deve allenare alla reattività e non alla riflessione razionale. Questa è una vecchia operazione, già praticata dai regimi autoritari della prima metà del ‘900, poiché essi avevano comunque bisogno della legittimazione popolare; la differenza odierna è che allora la folla si radunava negli stadi e nelle piazze, oggi il messaggio arriva nelle orecchie e negli occhi di ciascuno, nella propria singolarità; mentre allora l’adesione era di gruppo oggi si trasforma in una moltiplicazione di individualismi.

D’altra parte, il tema squisitamente antropologico-politico, la libertà, è questione che riguarda le élite intellettuali; l’uomo medio vuole la sicurezza della vita quotidiana.

La sequenza capo-seguaci-popolo-sicurezza è la struttura di ogni forma di potere, da quello criminale a quello politico e la premessa del suo successo è la “paura” (tema ampiamente tematizzato dal pensiero filosofico-politico), che implica un’altra premessa, come fattore causante: l’allarmismo emergenziale. Altro materiale storico per la speculazione filosofica e sociologica.

Il focus della analisi che riguarda il potere politico, il cui fine teorico è il bonum commune, deve spostarsi allora sul nesso “Capo-popolo” attraverso alcuni interrogativi. Primo: come concepisce il “Capo” il “suo” popolo? Quale opinione ne ha? Secondo: quale è l’abito mentale dell’uomo medio che forma il “popolo”? Sulla risposta a questi due interrogativi si fonda il successo del potere. Basti ricordare le democrazie autoritarie del ‘900 ed il loro linguaggio propagandistico. Un esempio per tutti: il nazional-socialismo come compimento della storia umana. Tutto ciò che era venuto “prima”, dai Greci ai Romani al Rinascimento, e così via, era solo “preistoria”. Torno allora agli interrogativi. Hitler e seguaci quale opinione avevano del popolo tedesco e quale era l’attitudine mentale del popolo tedesco? Credenza, condivisione, paura…

Nelle forme politiche legittimate dal “consenso” attestato dal processo elettorale, quali sono quelle della storia contemporanea, la risposta va trovata, quindi, nel nesso propaganda – obbedienza. È proprio questo nesso a mettere in luce la qualità del rapporto politico, “Capo – popolo”: il cinismo dell’uno e la reattività neurale, dell’altro, come dimostra la storia: la contestazione del potere è affidata a quei pochi dotati di intelligenza razionale.

Oggi il meccanismo che alimenta il potere politico non è cambiato; ha assunto, ovviamente, una configurazione diversa, adeguata a quel clima di libertà seguito alla seconda guerra mondiale e degenerato in sciovinismo individualistico. Il Web ha svuotato di contenuto la forma partito ed ha consentito il ritorno sulla scena della figura del Capo” che dà sicurezza a fronte della paura. Paura oggi promossa da due fenomeni, quello migratorio e quello recente pandemico. Con un’altra novità. Il capo oggi è una figura locale che cela, con la sua effervescenza, l’effettività del vero potere: la finanza globale.

Ancora due interrogativi, questa volta finali.

Se nella retorica democratico-rappresentativa il protagonista è, ancora, il popolo, poiché dispone della funzione elettorale che legittima il governo, la domanda è: in cosa differisce per capacità (o meglio: in-capacità) riflessiva questo “popolo” dalla “moltitudine” che nella storia passata non possedeva il diritto di voto?

Se questa mi sembra essere la condizione odierna, quale riforma di sistema, che conservi la libertà e la dignità di essere popolo, e non moltitudine, come giustamente invoca Alessandro Corbino, potrebbe riuscire a fronteggiare l’effettività del potere finanziario globale, il cui successo si fonda sull’annientamento della politica intesa, come ha mostrato la storia che abbiamo alle spalle, come progetto di governo per una idea di società che contiene come qualificante proprio la visione economica?

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