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Partito o movimento? Il dilemma delle stelle fra Di Maio e Casaleggio. La bussola di Ocone

di maio

Se il Movimento si trasformasse a tutti gli effetti in un partito, la fine di quello che finora sono stati i Cinque Stelle si convertirebbe in un momento di stabilizzazione non indifferente a livello politico-istituzionale. Ecco perché nella bussola di Corrado Ocone

Non è dubbio che se oggi siamo a recriminare un po’ tutti l’oggettiva insufficienza del governo attuale ad affrontare la crisi in atto, cioè quella “strategia della sopravvivenza” (come l’ha chiamata efficacemente Sabino Cassese) che si traduce in immobilismo e indecisionismo, ciò sia dovuto soprattutto alla crisi di identità e alle lotte di potere interne alla forza politica di maggioranza: il Movimento Cinque Stelle.

Può il sistema tenere e scansare, come ora sta facendo, le crisi di convulsione grilline? A che prezzo? Il primo elemento da considerare è che Luigi Di Maio non ha mai accettato di essere il capro espiatorio della rapida emorragia di voti subita dal Movimento una volta al governo, e quindi quella che ha considerato una forte diminutio: l’“esilio”, diciamo così, al ministero degli Esteri e l’affidamento formale del partito a Vito Crimi. Dico formale perché poi in sostanza, mai rassegnato, con il suo manipolo di fedeli e fedelissimi, Di Maio ha comunque continuato ad essere se non il capo sostanziale, sicuramente la persona più influente all’interno del Movimento. Un consenso personale che, tradotto in voti, sembrerebbe oggi in grado di racimolare un 10 per cento dei voti degli italiani, una quota  che, qualora fosse messa alla prova di un partito-personale, rappresenterebbe in definitiva la morte del Movimento. Al quale complessivamente viene attribuito da YouTrend un 15 per cento dei voti, meno della Lega, del Pd e anche di Fratelli d’Italia (che secondo l’ultima rilevazione effettuerebbe il “sorpasso” e si collocherebbe come terza forza politica del Paese).

Più in profondità, a segnare il Movimento in queste ore è quello che in molti considerano un vero e proprio tentativo di “boicottaggio” e “delegittimazione” operato da Davide Casaleggio nei confronti dell’iter congressuale che inizia questo fine settimana a livello provinciale per poi concludersi negli attesi Stati generali di metà novembre. In una intervista al programma Omnibus su La 7, il figlio del fondatore ha fatto sapere di essere contrario sia alla creazione di un organo collegiale di governo sia all’abolizione del limite dei due mandati: entrambe le misure farebbero ripiombare il Movimento in logiche del passato, facendolo paurosamente assomigliare ad un partito di vecchio stampo. Pomo della discordia è da un po’ di tempo la piattaforma Rousseau, che in molti vorrebbero considerare una mera “società di servizi” a disposizione del Movimento e non la cabina di regia e persino la “cassa” dello stesso.

Con un’aria di sfida, nella stessa intervista, Casaleggio ha rilanciato parlando di apertura a “realtà esterne” al Movimento. A fare da sponda a Casaleggio, fra i Cinque Stelle, è teoricamente rimasto solamente Alessandro Di Battista. Mentre Beppe Grillo appare, da una parte, distaccato, e, dall’altra, impegnato sul doppio fronte dell’appoggio al governo Conte e della creazione delle condizioni per un’“alleanza strutturale” col Pd. In sostanza, la questione si può riassumere così: i Cinque Stelle si trasformeranno in un partito, quindi con un’organizzazione forte e anche una definita ideologia di supporto, o rimarranno un movimento post-politico e post-ideologico? Nel secondo caso, come può conciliarsi una identità siffatta con le esigenze connesse al governo di un Paese, cioè con la necessità di convertire i no e i “vaffa” in un progetto positivo di governo?

Se la prima ipotesi dovesse avverarsi, se cioè il Movimento si trasformasse a tutti gli effetti in un partito, la fine di quello che finora sono stati i Cinque Stelle si convertirebbe in un momento di stabilizzazione non indifferente, secondo me. Mi sembra evidente che la forza destrutturante, o di svuotamento dall’interno, del sistema politico-istituzionale, e della stessa democrazia rappresentativa, operato dai pentastellati in questi anni, abbia costituito la vera “anomalia” del nostro Paese. Dai più, anche a livello europeo, discutibilmente individuata invece nel partito di Matteo Salvini, che invece, almeno a livello locale,  si è posizionato come una forza di governo e spesso anche di buona amministrazione.

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