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Tutti gli effetti della Brexit sulla Difesa. Parla Nones (Iai)

Intervista a Michele Nones, vice presidente dello Iai, sull’impatto della Brexit sul settore della Difesa europea. Pochi problemi sui programmi inter-governativi (come il Tempest), ma parecchi i rischi sulle collaborazioni industriali a causa “della nostra normativa”. Intanto cambia il mercato internazionale, tra Medio Oriente e Cina

A risentire dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea non saranno i grandi programmi internazionali nel campo della Difesa (Tempest compreso), ma le collaborazioni industriali che potrebbero avere “seri problemi” sui movimenti di equipaggiamenti e sul fronte dell’export. Parola di Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), che Formiche.net ha sentito per capire l’impatto della Brexit per il settore militare, ma anche per comprendere l’evoluzione dei mercati internazionali a fronte della pandemia da Covid-19, tra le spese che crescono e l’ascesa della Cina.

Partiamo dalla Brexit. Che impatto avrà sulla nascente Difesa europea?

L’Unione europea ha appena cominciato a muovere i suoi primi passi nel settore della Difesa. Il grosso delle attività di collaborazione nel Vecchio continente si dispiegano dunque ancora al di fuori del contesto dell’Ue.

Ci spieghi meglio.

La collaborazione militare e operativa rientra nell’ambito Nato, che resta chiaramente inalterato con la Brexit. Inalterata anche l’iniziativa assunta ormai nel lontano 2000 dai sei principali Paesi europei, la Letter of Intent (Loi), un accordo governativo che, seppur finito nel congelatore di fronte all’attivismo di altre iniziative, resta tutt’ora in vigore. Pure l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) si muove autonomamente rispetto all’Ue, e rimane dunque un contesto in cui la cooperazione può proseguire.

E per quanto riguarda l’Occar, l’Organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di armamenti?

La Brexit non avrà impatti. L’Occar è nata nel 1996 per la gestione di programmi congiunti tra Paesi partecipanti ed europei, si muove su un piano governativo. A tutto questo si aggiungono poi gli accordi a livello bilaterale che legano il Regno Unito ad alcuni Paesi europei, soprattutto per programmi di sviluppo e di approvvigionamento. Una molteplicità di rapporti di collaborazione che non saranno toccati dalla Brexit.

Che cosa, allora, verrà toccato dall’uscita del Regno Unito dell’Ue?

Verrà toccata la trasformazione di queste collaborazioni intergovernative in collaborazioni di carattere industriale che si sono mosse e hanno cominciato a prendere piede nell’ambito del mercato comune europeo. Anche nei programmi intergovernativi c’è una forte movimentazione di parti ed equipaggiamenti tra i confini dei Paesi che partecipano o che sono semplicemente attraversati dai materiali. Con le direttive europee del 2009 si è creato un mercato europeo che, sebbene tutt’ora incompiuto, ha consentito ai prodotti di transitare abbastanza liberamente. Il problema è che le direttive sono state demandate nell’applicazione ai singoli Paesi, i quali hanno di fatto mantenuto la sovranità nazionale in materia di esportazione di prodotti militari. Il risultato è una disomogeneità nella gestione delle autorizzazioni all’export.

Il quadro sembra complicarsi…

Non per tutti. Per alcuni Paesi il passaggio del Regno Unito dallo spazio comune europeo al ruolo di Paese terzo non comporta particolari problemi, perché hanno legislazioni flessibili che consentono di assimilare Uk agli Stati dell’Ue.

E l’Italia?

L’Italia non è tra questi Paesi. Noi abbiamo trasposto le direttive europee in norma nazionale con un criterio molto rigido. Per questo, dal primo gennaio non potremo assimilare il Regno Unito agli Stati dell’Unione. Il problema sarà modificare la normativa nazionale, cioè la legge 185 del 1990 sull’export militare, così da avere analoghe forme di relazioni con il Regno Unito. Il problema non è dunque né europeo né britannico. È tutto italiano e la soluzione dovrà essere italiana.

Che impatti rischiamo?

Ci saranno sicuramente impatti sulle collaborazioni che molte imprese italiane hanno con analoghe imprese britanniche, spesso all’interno dello stesso gruppo, come per Leonardo e MBDA. Problema analogo sul trasferimento del personale: non essendo più statuito il principio di libera circolazione delle persone oltre che di prodotti e di capitali, l’eventuale trasferimento di tecnici inglesi in imprese italiane andrebbe assoggettato alle normative che valgono per il personale non europeo nel territorio nazionale. Difficoltà ulteriori emergeranno poi nel momento in cui le forniture italiane a imprese Uk fossero coinvolte nell’esportazione a Paesi terzi, poiché automaticamente andrebbero assoggettare alla parte più rigida della nostra normativa.

E sul Tempest, il programma di Londra per un velivolo di sesta generazione a cui ha aderito l’Italia?

L’impatto sarebbe limitato, poiché qui ci si potrebbe muovere attraverso una forma di copertura governativa, essendo il Tempest un programma di cooperazione inter-governativa.

Oltre la Brexit, come cambia il mercato della Difesa con la pandemia da Covid-19?

La crisi economica internazionale ha tagliato notevolmente le capacità di spesa di numerosi Paesi, ma non di quelli industrializzati. Per questi valgono infatti due antidoti. Prima di tutto i programmi pluriennali, che risentono solo parzialmente dalla crisi (a meno che non duri cinque anni) e che possono vedere al massimo qualche dilazione o ritardo.

E il secondo antidoto?

È il riconoscimento dalla funzione anti-ciclica dell’industria della Difesa. Si sta cioè riconoscendo, giustamente, che gli investimenti in questo campo possono essere un motore per la ripresa economica. Ciò spiega il notevole piano di spesa del Regno Unito, lanciato per di più in piena Brexit. Hanno fatto lo stesso la Francia e, nel suo piccolo, la Germania. Nel “piccolissimo” lo ha fatto anche l’Italia, considerando l’aumento degli investimenti registrato quest’anno.

Chi ridurrà dunque le spese per la Difesa?

I produttori di petrolio, che già prima della pandemia avevano iniziato a risentire della caduta del prezzo del greggio. Per il mercato dei Paesi dell’Opec ci potrebbero essere problemi seri in termini di capacità di spesa militare. Penso poi ai Paesi in via di sviluppo, per cui la crisi sta riducendo il mercato internazionale e dunque le entrare legate al commercio. Diversi Paesi sudamericani, africani e del sud-est asiatico rischiano di avere gravi difficoltà a mantenere e sostenere programmi di equipaggiamento militare. Lo stesso di può dire della Turchia. Non vedo come nell’attuale situazione di crisi Ankara, che ha già visto ridursi l’export e la disponibilità di risorse, possa sostenere programmi massicci di ammodernamento militare.

E la Cina?

La Cina non avrà problemi. Nonostante il Covid il suo Pil è cresciuto. Non credo abbia alcuna difficoltà a destinare adeguate risorse al settore della difesa. Peccato che non sia per noi un mercato accessibile.

Pechino appare già un competitor su tanti mercati internazionali…

Sì. È già diventato un competitor nel campo della difesa. Come è stato a suo tempo per Israele, anche la Cina è riuscita a passare rapidamente da acquirente a esportatore di sistemi. Lo fa meno il Giappone, sia per questioni politico-ideologiche, sia perché il mercato interno è sufficientemente sostenuto da saturare le capacità produttive. Noi non possiamo dire lo stesso. I Paesi europei hanno un eccesso di capacità produttive tale per cui risultano estero-dipendenti. Il risultato è che il poco mercato che resta sarà a maggiore competizione per i produttori, compresi quelli nuovi. Staremo a vedere la capacità di penetrazione che potranno avere i cinesi.

Cosa significa tutto questo per l’Italia?

Significa che dobbiamo marciare più velocemente di quanto i nostri riti e le nostre liturgie ci consentono. A un anno dalla legge che ha consentito al ministero della Difesa di siglare gli accordi governo-governo (g2g), non è ancora stato emanato il regolamento che serve per darne piena attuazione. A volte è difficile convincere il Parlamento della bontà di determinati cambiamenti nell’interesse del sistema-Paese. Ma se poi, una volta che grazie alla lungimiranza del Parlamento si aprono spazi utili, la burocrazia non è in grado di utilizzarli, allora siamo veramente messi male.

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