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Il nuovo vescovo di Hong Kong e il ponte tra Vaticano e cattolici cinesi

Di Alessandro Sansoni

La prudenza e la flessibilità del gesuita Stephen Chow Sau-yan hanno indotto alcuni commentatori a ritenere la sua nomina frutto di tatticismo ed equilibrismo. È un’interpretazione riduttiva, come testimonia l’intervento diretto del papa. Il commento di Alessandro Sansoni

“La Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini Cristo”. Con queste parole si esprimeva nel 2007 Papa Benedetto XVI nella sua Lettera ai cattolici cinesi.

Una posizione molto prudente, nel solco del tradizionale approccio assunto dalla Santa Sede nei confronti della Repubblica Popolare.

Da allora, però, sono trascorsi 14 anni e il ruolo globale (e la percezione in Occidente) della Cina è molto cambiato.

Negli anni in cui scriveva Papa Ratzinger l’ex Celeste Impero era un paese che, grazie alla globalizzazione, viveva una stagione di impetuoso sviluppo, ma la sua straordinaria vivacità era vista in Europa e negli Stati Uniti innanzitutto come una straordinaria opportunità. La sua turbo-industrializzazione e modernizzazione erano viste complessivamente con simpatia, nonostante le diffuse perplessità sullo stato dei diritti umani in Tibet e la diffidenza verso un sistema politico a partito unico, almeno ufficialmente ancora comunista.

Oggi le cose stanno molto diversamente. Molti analisti ritengono che Pechino possa essere un reale competitor di Washington per la leadership mondiale e le Vie della Seta, marittime e terrestri, progettate per integrare meglio il blocco eurasiatico, vengono intese come concrete minacce all’egemonia americana.

Il recente vertice del G7 ha dimostrato come Oltreatlantico non fosse causato solo dall’approccio sinofobico dell’amministrazione Trump l’atteggiamento ostile nei confronti di Pechino: l’agenda di Biden in Estremo Oriente sembra proseguire sulla stessa direttrice del suo predecessore, con un più marcato riferimento al mancato rispetto dei diritti umani.

In questa cornice assume un certo valore la recente nomina del nuovo Vescovo di Hong Kong, designato  da Papa Francesco lo scorso 17 maggio, tanto più che l’ex-colonia inglese è esplicitamente citata, assieme agli Uiguri e Taiwan, nel comunicato stampa finale del summit dei Sette Grandi tenutosi in Cornovaglia.

A cavallo tra settembre e ottobre dell’anno scorso, la questione fu oggetto di ampio interesse e dibattito. Mancava poco più di un mese all’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti e il Segretario di Stato Mike Pompeo si apprestava a venire in visita in Italia, dove avrebbe incontrato il suo omologo in Vaticano, il Cardinale Pietro Parolin.

Lo spauracchio anti-cinese costituiva uno dei piatti forti della propaganda di Donald Trump e Pompeo sollecitò esplicitamente la Chiesa di Roma a far valere tutta la propria autorità politica e morale contro Pechino, da manifestarsi anche attraverso la scelta del nuovo titolare della Diocesi di Hong Kong, vacante dal 3 gennaio 2019, giorno della morte del Vescovo Michael Yeung Ming-Cheung.

Nei lunghi mesi di vacanza della sede, contrassegnati dalle violente manifestazioni di piazza degli studenti contro il governo centrale e il Governatore Carrie Lam, il dibattito sulla successione in seno alla comunità cattolica hongkonghese era stato caratterizzato dalla contrapposizione tra il Vicario diocesano Peter Choy Wai-man, considerato vicino al governo, e il Vescovo ausiliare Joseph Ha Chi-sing, amico del movimento studentesco di protesta.

Alla fine, a sorpresa, la scelta di Papa Bergoglio è caduta invece sul 62enne gesuita Stephen Chow Sau-yan, dal gennaio 2018 a capo della Provincia cinese della Compagnia di Gesù.

Contattato già nel dicembre 2020, Padre Chow aveva declinato l’invito ad assumere la guida della diocesi della sua città. In base a quanto da lui stesso riferito durante la conferenza stampa seguita al conferimento dell’incarico, è stato l’intervento diretto del Pontefice a farglielo successivamente accettare.

Dunque la portata geopolitica di questa decisione non è banale.

Il suo significato va ricercato innanzitutto nel profilo umano e cristiano del nuovo Vescovo.

Padre Chow è un educatore navigato, formatosi nel solco della grande tradizione pedagogica gesuita (Master’s degree in Sviluppo organizzativo presso la Loyola University di Chicago) e che ha poi acquisito le moderne metodologie d’insegnamento presso la Harward University di Boston (dottorato in Sviluppo umano e psicologia conseguito nel 2006). Chow ha insegnato a lungo negli istituti cattolici di Hong Kong, esperienza che lo ha reso particolarmente capace di dialogare con i giovani e di comprendere le loro istanze, ma come responsabile della Provincia gesuita cinese ha dovuto sperimentare cosa implica gestire una realtà ecclesiale che porta avanti la sua opera adattandosi a sistemi politici, giuridici e amministrativi diversi, dal momento che la sua giurisdizione comprende la Cina continentale, Hong Kong, Macao e Taiwan.

E’ interessante notare come in piena pandemia, e subito dopo le proteste e gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine ad Hong Kong, padre Chow non abbia mancato di far sentire la sua voce agli studenti, indirizzando loro un video-messaggio in cui li esortava a non “farsi trascinare dalle emozioni negative come frustrazione, disperazione, risentimento” e a “rimanere nella speranza”.

L’atteggiamento prudente e flessibile si è manifestato anche durante la già accennata conferenza stampa, allorché, interrogato sulla sua partecipazione alle veglia con cui ogni anno, il 4 giugno, si commemorano ad Hong Kong le vittime di Piazza Tienanmen, ha risposto: “La possibilità di partecipare a tale commemorazione dipende dal fatto che essa sia autorizzata o meno dalle autorità” e che, nonostante in passato vi abbia preso parte, “ci sono tanti modi per commemorare chi perse la vita nel 1989 a Tienanmen”.

La prudenza e la flessibilità del prelato hanno indotto alcuni commentatori a ritenere la sua nomina frutto di tatticismo ed equilibrismo. E’ un’interpretazione riduttiva, come testimonia l’intervento diretto del Papa, per di più rivolto a un membro dell’ordine da cui lui stesso proviene. Si tratta, in realtà, di una scelta strategica che va al di là dell’individuazione di una figura “di compromesso” volta a non scontentare Pechino e porsi “a metà strada” tra le diverse sensibilità che dividono la comunità cattolica locale.

Come sostenuto dall’esperto vaticanista Gianni Valente “con la nomina episcopale di Chow, la Santa Sede, tenendo presenti tutti i fattori in gioco, si è smarcata dalla griglia di lettura politico-ideologica che di fatto identifica il vissuto e la missione storica della comunità cattolica di Hong Kong con l’attivismo di militanti cattolici coinvolti nelle mobilitazioni anti-Pechino, fino al punto di presentare come ‘persecuzione anti-cristiana’ le misure messe in atto dagli apparati di sicurezza”. Con buona pace della Casa Bianca e in coerenza con la linea tracciata da Benedetto XVI.

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