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Se la neutralità attiva è l’unica strada per il Libano

Di Gabriele Checchia

Se la sua neutralità dovesse venir meno, il Libano rischia di essere stravolto e dilaniato negli scontri tra i blocchi geopolitici. L’analisi di Gabriele Checchia, già ambasciatore d’Italia a Beirut, in tre articoli. Ecco il secondo

(Qui puoi leggere il primo articolo)

Non è questa naturalmente la sede – poiché le opinioni divergono e l’argomento ci porterebbe troppo lontano – per una disamina dei fattori all’origine dell’insuccesso dei pur lodevoli sforzi di Hariri: insuccesso da valutare anche nella sua dimensione di vera e propria “cartina tornasole” di molte delle criticità della scena libanese.

L’opinione prevalente è che essi siano principalmente da individuare nella inconciliabilità del suo approccio (basato sulla volontà, come sopra accennato, di dar vita a un governo di tecnici di alto profilo, politicamente neutrale, in linea con quanto auspicato da Macron in occasione delle sue ripetute visite-lampo a Beirut della scorsa estate) con quello del presidente Aoun. Esponente maronita di primo piano ora, come detto, vicino all’asse sciita (dopo essere stato a lungo, sino al rientro dal suo quindicennale esilio in Francia nel maggio del 2005, l’alfiere della resistenza all’invasore siriano con la sua temeraria, impari e all’origine di tante vittime tra la popolazione “guerra di liberazione” dalle truppe di occupazione siriane). A fronte di tali per molti versi sorprendenti cambiamenti di campo, frequenti sulla scena libanese, non può non venire a mente – mi sia consentito l’inciso – la storica frase del generale Charles De Gaulle, che egli cita nelle sue memorie, alla vigilia della sua prima visita nella regione nel 1941, da capo dellaz Francia Libera”: Vers l’Orient compliqué, je volais avec des idées simples.

Tornando ai fattori all’origine del fallimento del tentativo di Hariri – che resta comunque, anche per il nome portato, la figura di riferimento della comunità sunnita moderata in Libano – Aoun avrebbe rivendicato, si dice (ma questi contesta tale lettura rigettando sullo stesso Hariri la responsabilità dell’insuccesso), il diritto di scegliere praticamente in autonomia – circostanza inaccettabile per il primo ministro incaricato – i ministri cristiani in seno al costituendo esecutivo. E questo con il non confessato obiettivo, almeno secondo la stampa libanese ostile all’asse siro-iraniano, da un lato, di ottenere in seno al nuovo governo la cosiddetta “minoranza di blocco”; dall’altro, di spianare la strada quale suo successore al vertice dello Stato – dopo le legislative e successive presidenziali a oggi previste per il 2022 – al genero Jibran Bassil: anch’egli maronita e deputato per la regione di Batrun della Corrente patriottica libera; dichiaratamente in buoni rapporti col redivivo regime di Bashar al-Assad (oltre che con quello iraniano); sanzionato alla fine dello scorso anno dall’amministrazione Trump per significant corruption ai sensi del Global Magnitsky Human Rights Account; già ministro dell’Energia e degli Esteri nonché figura non sorprendentemente invisa a Hariri e alla maggioranza del mondo sunnita libanese e del Golfo così come alle componenti maronite filo-occidentali che furono in prima linea nella ormai purtroppo remota Primavera di Beirut ( a cominciare dal partito Kataeb).

In un Paese nel quale la politica ha molto – dall’indipendenza a oggi,con la sola eccezione forse del felice periodo 1958-1964, della presidenza Fouad Chehab – del “gioco di specchi” è naturalmente difficile nutrire certezze. Mi sento però di condividere – si tratta naturalmente di un’opinione personale – la valutazione espressa nei giorni da Michael Young, analista politico di vaglia nonché capo-redattore di Diwan, il blog del Carnegie Middle East Center basato proprio a Beirut.

Quella secondo la quale gli insanabili contrasti tra Aoun e l’ambizioso genero Bassil da un lato e Hariri dall’altro sarebbero in realtà stati visti con inconfessato favore da Hezbollah: formazione ostile da sempre – per evidenti motivi – a quella “presa in carico” del Libano da parte delle organizzazioni finanziarie internazionali (e dunque, in qualche misura, da parte di un Occidente a guida statunitense e, nel caso di specie, francese) che figurerebbe certamente tra i primi, concreti seguiti della costituzione di un esecutivo nella pienezza dei suoi poteri. Da tale presa in carico naturalmente “condizionata” deriverebbe infatti, come prima contropartita per Beirut, lo sblocco degli ingenti finanziamenti internazionali da tempo promessi ma mai messi a disposizione per l’assenza, appunto, nel Paese di un interlocutore in grado di assumere impegni credibili – con un cronoprogramma preciso e monitorabile – in termini di governance e buon uso delle risorse.

Di qui l’interrogativo che gli analisti libanesi già si pongono circa il grado di effettivo sostegno che l’appena avviato tentativo di Mikati troverà nella formazione sciita, ritenendo più d’uno che il dichiarato appoggio agli sforzi in parola risponda per Hezbollah più a esigenze d’immagine, in una fase drammatica della vita del paese, che a un reale convincimento; nella speranza forse che siano altri, alla fine, a far comunque fallire anche il tentativo del nuovo primo ministro incaricato. Ne deriverebbe per la formazione di Hassan Nasrallah un duplice risultato con il minimo sforzo. I fatti diranno.

La nascita a breve di un esecutivo dotato della fiducia parlamentare rappresenterebbe comunque per l’Occidente e non solo (oltre che naturalmente per il sofferente popolo libanese.) sviluppo positivo. Che comporterebbe però per Hezbollah, come lascia intendere Young, la perdita di una importante “rendita di posizione”: vale a dire quella sinora goduta grazie ai generosi finanziamenti a suo favore da parte del regime degli Ayatollah al di fuori del circuito del bilancio statale e, dunque, di qualsivoglia controllo.

Rendita di posizione – da ultimo, ed è dato da non sottovalutare – che sta oggi più che mai consentendo alla formazione sciita-radicale di accreditarsi, anche presso i settori di diversa confessione, quale sola forza realmente desiderosa e in grado di sopperire alle necessità delle fasce meno privilegiate (ormai la quasi totalità dei cittadini libanesi): in termini, per esempio, di assistenza sanitaria – drammatica ormai come sopra accennato la penuria di medicinali – e umanitaria in senso lato. Grazie, merita precisare, alle importanti strutture di supporto (cliniche dotate delle più recenti tecnologie, centri di accoglienza e formazione) di cui Hezbollah dispone sul territorio in particolare, ma non solo, nel Sud del Paese e nel suo feudo della periferia meridionale di Beirut. Con le positive ricadute, per il principale raggruppamento sciita che è facile immaginare: sia in termini politici, nella prospettiva delle legislative del 2022, che di consolidamento della sua già forte presa sul Paese anche grazie al rivendicato possesso di un arsenale superiore a quello delle Forze armate libanesi. 

Al di là del calendario serrato che si è dato Mikati (che ha immediatamente avviato le previste, non vincolanti, consultazioni parlamentari) non è naturalmente possibile formulare previsioni sui tempi di eventuale costituzione di un nuovo governo, anche perché la Costituzione libanese non fissa in realtà al primo ministro designato alcun termine per la presentazione della lista dei ministri e del programma della nuova compagine.

In sostanza, l’incarico di formare il nuovo governo assegnato lunedì scorso da Aoun al miliardario sunnita costituisce passaggio certamente da registrare ma non necessariamente risolutivo troppe essendo le variabili in gioco. Tanto che non pochi a Beirut ritengono che alla fine sarà l’attuale esecutivo per gli affari correnti a traghettare il Paese alle legislative del 2022. Legislative che ove, come tutto lascia prevedere, dovessero svolgersi sulla base dell’attuale legge elettorale con collegi definiti su base confessionale difficilmente – come rileva un acuto e sperimentato osservatore quale Walid Joumblatt – porterebbero a sostanziali modifiche negli attuali equilibri parlamentari (salvo forse a un qualche travaso di voti in seno all’elettorato cristiano a beneficio si stima, ma è tutto da verificare, delle due formazioni, le Forze libanesi e il Kataeb, ostili all’asse Teheran-Damasco).

La crisi libanese riveste però, come da sempre avviene, anche una dimensione che va ben al di là del perimetro di un Paese di poco più di 4 milioni di abitanti (senza contare i circa due milioni di profughi tra quelli, più recenti, giunti in situazioni disperate dalla limitrofa Siria e quelli, di più antica presenza, espressione della diaspora palestinese). La sorte del Paese dei Cedri è infatti destinata e produrre ricadute su, e interagire con, almeno due altre variabili di rilievo: la prima è quella legata al futuro della presenza cristiana in Libano e nello scacchiere; la seconda è quella connessa all’impatto che le vicende interne del Paese dei Cedri sono suscettibili di produrre ( essendone a loro volta influenzate) sulla regione mediorientale nel suo complesso.

Circa il primo aspetto rivelatrice della sollecitudine con cui la Santa Sede – e il Pontefice in primis, che non rinunzia alla speranza di un suo viaggio apostolico in Libano entro fine anno – continua a seguire la vicenda di quello che, con espressione felice ormai passata alla storia, Giovanni Paolo II ebbe a definire “Paese-messaggio”di una convivenza possibile (ed è oggi “presidio” di presenza cristiana nell’intera regione mediorientale da tutelare con ogni cura) è la Giornata di preghiera per il Libano svoltasi in Vaticano lo scorso primo luglio: con la partecipazione dei vertici delle dieci comunità cristiane libanesi a lungo intrattenutisi con il Santo Padre sulla drammatica situazione in atto e le possibili vie d’uscita. Giornata di condivisione e preghiera il cui significato è stato così sintetizzato dal segretario per i Rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher: “La Santa Sede è fortemente preoccupata per il tracollo del Paese a livello finanziario, economico e sociale che colpisce in particolare la comunità cristiana e l’identità del Paese. E pertanto necessario pervenire a una visione comune e un impegno concreto perché il Libano torni a essere un progetto di pace”.

Lo stesso papa Francesco, nell’invitare a pregare tutti insieme “perché il Libano si riprenda dalla grave crisi in atto e possa di nuovo mostrare al mondo il suo volto di pace e speranza”, ha tenuto a stigmatizzare nell’occasione le “ingerenze straniere e quanti strumentalizzano il Paese per finalità personali”. Alle sue parole, quasi ad amplificarne l’effetto, hanno fatto eco lo scorso 17 luglio, in occasione della Festa di San Charbel, quelle del patriarca maronita Bechara Boutros Rai, così come, in altra cornice, quelle del parimenti autorevole metropolita greco-ortodosso monsignor Elias Audi. Presa di posizione, quella del primate maronita, che merita di essere registrata anche perché, nello stesso simbolicamente importante contesto, egli ha voluto rilanciare la sua mai antica proposta – quale unica via d’uscita a una situazione nella quale il Paese continua ad apparire come terreno di dispiegamento dei contrasti tra contrapposte potenze nell’area – di una “Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, che ufficializzi la neutralità del Libano negli scenari mediorientali”.

Neutralità “attiva” (in sostanza il Libano quale “ponte” tra Stati della regione in contrasto se non in conflitto, e luogo privilegiato di dialogo) che, ha tenuto a precisare il Patriarca – pur in passato fortemente critico verso la formazione di Nasrallah per la sua indisponibilità a rinunciare al proprio imponente arsenale – “non è diretta contro Hezbollah”. Essendo il Libano, ha osservato, “neutrale per natura, proprio in virtù del suo pluralismo culturale e religioso sul quale si fonda lo stesso Patto nazionale del 1943”.

Ove tale “neutralità pluralista” dovesse venir meno, ha concluso, i maroniti si muoveranno verso la Francia (significativo, mi sembra, un così esplicito riferimento al percepito ruolo-guida di Parigi da parte del maggior esponente maronita), i sunniti verso l’Arabia Saudita e gli sciiti verso l’Iran con il rischio per il Paese di essere stravolto e dilaniato negli scontri tra i blocchi geopolitici che si confrontano in Medio Oriente. Parole chiare che vanno al cuore della questione.

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