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I talebani sono cambiati. Non il loro dna ideologico

Di Arije Antinori

I neo-talebani sono oggi il risultato di diverse dinamiche di mutamento adattivo in cui coesistono tradizione e innovazione. Il primo capitolo dell’analisi di Arije Antinori, professore di Criminologia e sociologia della devianza alla Sapienza di Roma

L’attenzione dei media su quanto di drammatico stia accadendo in queste giorni a Kabul, sull’orizzonte ormai prossimo di una nuova crisi umanitaria, non deve distogliere l’attenzione dalla necessità di cogliere la complessità dello scenario afghano nella sua unicità e centralità regionale di cui il tribalismo, il sistema delle alleanze, i rapporti con gli attori confinanti e l’ibridazione criminale risultano elementi chiave, tra l’altro in un quadro di progressiva compressione di molti dei Paesi della contigua regione Mena, quindi con il rischio, seppur non imminente, di una trans-regionalizzazione della crisi con impatti significativi anche sulla sicurezza del Mediterraneo.

L’Afghanistan di oggi non è quello dei primi anni del secolo in corso, né tantomeno quello dell’occupazione sovietica o delle guerre anglo-afghane. Allo stesso modo, anche i talebani sono cambiati, pur mantenendo inalterato il proprio dna ideologico. Sarebbe, quindi, più opportuno chiamarli “neo-talebani” in quanto i talebani che hanno conquistato negli ultimi giorni Kabul sono notevolmente diversi da quelli cacciati dalla capitale con l’arrivo della Coalizione intenta a disarticolare i vertici qaedisti ritenuti i mandanti responsabili degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

I neo-talebani sono oggi il risultato di diverse dinamiche di mutamento adattivo in cui coesistono tradizione e innovazione; hanno acquisito coscienza politica, capacità comunicativa e negoziale, ma soprattutto maturità e consapevolezza geostrategica regionale, unitamente alla conoscenza e uso di moderni dispositivi militari. Se è vero che il loro obiettivo primario risulta essere la legittimazione, il riconoscimento da parte della comunità internazionale, è altrettanto vero che non esiste un talebanesimo moderato, esiste l’ideologia talebana – data, in estrema sintesi, dalla convergenza di fondamentalismo islamista, conservatorismo deobandista e wahabita, etnonazionalismo pashtun, tribalismo clanico, insorgentismo anti-occidentale e anti-sovietico e una certa influenza dottrinale militare qaedista – che si cristallizza nell’articolazione di un sistema di governo politico e socio-culturale su base shariatica – quindi attraverso l’interpretazione – e con il ruolo centrale della loya jirga. Tale sistema non ha mai cessato di esistere in molte aree dell’Afghanistan, ove purtroppo il “governo”, il controllo, del corpo femminile ha da sempre rappresentato uno degli elementi di catalizzazione del consenso a livello intracomunitario.

Come già all’indomani del ritiro sovietico dall’Afghanistan, si è assistito allo sgretolamento delle forze di sicurezza afghane. Tuttavia, vi è da considerare in primis che il processo di formattazione e (ri-)generazione delle forze armate afghane, costituite non solo da quadri strutturati NATO, ma anche da ex-mujahideen della resistenza anti-Urss, ufficiali del governo filo-sovietico, e non ultimo da quadri addestrati dalle forze indiane, cinesi e pakistane, è stato avviato poco più di dieci anni fa. Inoltre, chi conosce la storia, le dinamiche territoriali e i sottosistemi culturali che caratterizzano l’intero tessuto sociale afghano, sa bene che post-accordi di Doha, non vi sarebbe potuta essere una legittimazione, non del potere, ma dell’esistenza stessa dei talebani per mezzo di una transizione politica, soprattutto dopo vent’anni di occupazione militare. La marcia sulla capitale è stata la più che prevedibile operazione politico-simbolica di autolegittimazione del potere attraverso la forza, l’espressione della propria capacità militare, la dimostrazione di governo della sicurezza, al di là delle modalità tattico-operative con cui la si raggiunge, che segue la preliminare copertura delle frontiere attraverso specifiche operazioni condotte nei giorni precedenti in particolare a Kandahar e Herat.

Inoltre, tutto ciò è stato possibile grazie al rapido sfaldamento della resistenza civile e dell’esercito afghano. Dinamica che non può sorprendere se solo si considerano i talebani al centro della storia afghana e non un corpo estraneo, come spesso rappresentato nelle narrazioni occidentali. Non si tratta, purtroppo, di un’entità occupante, ma di uno degli attori principali dello scenario afghano, come testimoniato dall’indiscussa tenuta in questi anni della “capitale” talebana Kandahar.  A tal proposito, occorre ricordare che prima dell’intervento post 11 settembre della Coalizione, il Paese era governato dai talebani e che l’intervento occidentale non fu volto a liberare la popolazione dal regime teocratico oppressivo, ma a individuare e colpire i mandanti e i fiancheggiatori degli attacchi terroristici perpetrati sul suolo statunitense. Al contempo, i talebani rappresentano un movimento caratterizzato da una forte identità socio-politica, tribale, religiosa, pseudo-mafiosa e para-militare che ha la sua storia nelle terre afghane, soprattutto lontano dalla capitale Kabul. Proprio per questo, al di là di episodi localizzati, la “resistenza” alla marcia talebana si è per lo più trasformata, tanto rapidamente quanto pragmaticamente, in resa, sottomissione, ritiro o fuga. Discorso diverso per la vera resistenza ai talebani che si comincia a osservare nel Panjshir che comunque, in assenza di sostegno militare esterno, sembrerebbe destinato a sopperire.

L’essenza tribale del movimento talebano fa sì che negoziazione e corruzione siano i vettori privilegiati della “stabilizzazione” interna e territoriale. In tal senso, nell’analisi di scenario relativa al ritiro statunitense dall’Afghanistan, non sarebbe potuto esserci nulla di più errato e incoerente, da accostare ai talebani, di una dinamica di transizione e organizzazione democratica del potere.

Infine, la rappresentazione dell’Afghanistan come rifugio qaedista attraverso l’alleanza con i talebani appartiene ormai al passato, all’ingresso della Coalizione post 11 settembre, poiché i miliziani di al-Qaeda, da almeno un decennio sono divenuti elemento praticamente strutturale della convergenza funzionale terroristico-criminale in particolare relativamente ai traffici illeciti e alla mobilità umana lungo la frontiera con il Pakistan, vera e propria area cruciale soprattutto per il narcotraffico.

Nel giugno del 2010, il New York Times riportava in prima pagina la scoperta da parte di un’équipe di geologi americani degli immensi giacimenti in particolare di rame, ferro, e oro presenti nel sottosuolo afghano, stimando un potenziale valore di circa 1.000 miliardi di dollari. Da qui il crescente interesse di Cina e Russia che nell’ultimo decennio si sono attestate in una posizione di leadership tra i principali dieci gruppi al mondo operanti nel settore petrolifero, del gas e dell’elettricità. Per la Cina, la regione risulta, inoltre, centrale per il potenziamento del progetto strategico Belt and Road Initiative. Nell’ultimo decennio, l’assenza, da parte del governo afghano, di un framework normativo applicabile alle estrazioni nel loro complesso, ha favorito l’inserimento di entità criminali organizzate, come la rete Haqqani, nel commercio di cromite e altri elementi delle terre rare verso Cina e India. Paradossalmente, quindi, le risorse minerarie afghane da vettore di valorizzazione interna ed emancipazione nazionale dalle potenze straniere, in particolare quelle a capo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, sono divenute il prodotto criminale al centro delle reti transnazionali di corruzione intragovernativa.

In tale contesto, l’ottenimento in Afghanistan dei diritti di esplorazione relativamente ai consistenti giacimenti di rame, litio, carbone e petrolio, unitamente alle medesime operazioni in Sud America e Africa, consente alla Cina di mantenere la leadership della corsa all’acquisizione, stoccaggio e sfruttamento degli elementi dalla terre rare che, parallelamente a quella per lo sviluppo di tecnologia basata su intelligenza artificiale, ha l’obiettivo di garantire al centenario Partito comunista cinese la supremazia tecnologica globale nel prossimo futuro, un futuro sempre più tecnosociale.

Sin dall’invasione sovietica del Paese, l’esperienza di condivisione e internazionalizzazione dell’ideologia jihadista ha consentito la gemmazione, proiezione e talvolta coagulazione di diverse entità terroristiche. Se l’intervento della Coalizione post 11 settembre ha determinato la caduta del governo talebano, la loro leadership nel narcotraffico e nel controllo del vasto e impervio territorio afghano non ha subito significativi ridimensionamenti. Inoltre, in Afghanistan sono attive principalmente circa venti entità terroristiche, alcune costituite da cellule e micro-gruppi interconnessi a catene di comando e controllo presenti sul territorio pakistano, le cui principali sono al-Qaeda, Daesh, la rete Haqqani, Lashkar-e-Taiba, Lashkar-e-Jhangvi, Jaish-e-Mohammad, il Movimento Islamico dell’Uzbekistan e i talebani pakistani di Tehrik-e Taliban Pakistan. In merito a quest’ultimo attore, sempre più rilevante nell’area, occorre specificare che all’indomani dell’11 settembre i qaedisti rifugiati in Afghanistan hanno contribuito alla strutturazione su territorio pakistano di Tehrik-e Taliban Pakistan, favorita dalle operazioni anti-qaediste condotte in Pakistan, con l’obiettivo di destabilizzare quest’ultimo e garantire un’efficace osmosi operativa jihadista tra i due Paesi. Ancora oggi, al-Qaeda esercita un’importante influenza sul Tehrik-e Taliban Pakistan, costituito da circa 30 gruppi qaedisti a prevalenza cecena, uzbeca, uigura, con l’obiettivo di mantenere alta la minaccia terroristica nell’ottica di regionalizzazione jihadista. Da qui la stretta alleanza tra Tehrik-e Taliban Pakistan e al-Qaeda nel Subcontinente Indiano che pur mantenendo un legame forte e strategico con le cellule pakistane, ha la sua proiezione principalmente anti-indiana.

Sulla frontiera pakistana al-Qaeda garantisce ai talebani l’addestramento tattico militare per le azioni di guerrilla warfare, anche grazie al ruolo di contractor in particolare per quanto concerne il confezionamento di esplosivi. Il carattere fortemente transfrontaliero del terrorismo jihadista nell’area, fa sì che Cina, Iran e soprattutto la Russia siano pragmaticamente consapevoli che allo stato i talebani – quindi di fatto la sinergia talebano-qaedista – costituisce il contrasto più efficace alla ricostituzione strutturata del Daesh nel Khorasan quale principale minaccia di destabilizzazione del dominio sino-russo nell’Asia centrale. La Russia sostiene i talebani, anche attraverso la fornitura di armi, in quanto cerca di contrastare l’infiltrazione di combattenti del Daesh attraverso la frontiera settentrionale, così come per il Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan.

La talibanizzazione delle aree tribali pashtun sul confine afghano-pakistano genera continue tensioni tra i due Paesi, acuite anche dalla questione del Belucistan. Per poter, quindi, comprendere le dinamiche di confine è necessario considerare la centralità socio-culturale identitaria dei sistemi di cooperazione interetnica e religiosa che, come nel caso dei pashtun, si pongono ben al di sopra di un’incompiuta identità nazionale. Infatti, considerando la storia dell’Afghanistan quest’ultimo concetto risulta oggi permeato, soprattutto tra i giovani, limitatamente a realtà come Kabul e Herat che non sono affatto rappresentative della complessità del Paese. Inoltre, nel corso degli anni, si sono sviluppate nelle restanti aree afghane strutture informali di governo locale di natura pseudo-califfale.

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