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Dalle tre sinistre a una nuova opposizione. Il commento di De Masi

Di Domenico De Masi

La ricostruzione della sinistra non consiste, come vagheggia il Pd, nel recupero della sua egemonia sui 5 Stelle e sui gruppi radicali. Né consiste nel costringere le tre formazioni in un unico contenitore. Sta, invece, nella orgogliosa consapevolezza della propria specificità da parte di ciascuna delle tre formazioni. Il commento del sociologo Domenico De Masi

L’esistenza di tre destre al governo ne costringe almeno una a essere radicale. A sua volta l’esistenza di una destra radicale costringe la sinistra, dopo essersi leccata le ferite, ad avviare una sua ricostruzione dalle fondamenta. Ricostruirsi significa mettere a punto un nuovo modello di società da proporre ai suoi potenziali elettori; scovare, formare e organizzare politicamente questi elettori; individuare con precisione gli alleati e gli antagonisti; intraprendere e portare a termine una lunga marcia per tornare al governo del Paese. Ciò implica il ritorno del conflitto sociale e, di conseguenza, la centralità della politica che, da cinquant’anni a questa parte, è stata spiazzata dall’economia.

Questo processo è complicato dal fatto che in Italia, oltre alle tre destre di Meloni, Salvini e Berlusconi, vi sono tre sinistre. Il Pd, che nelle ultime settimane della campagna elettorale ha perso 4 punti percentuali di voti, è stato scelto prevalentemente da pensionati, imprenditori, laureati e benestanti. Dunque è un partito di borghesi che guardano a sinistra. Al contrario di quanto faceva il Pci di Togliatti e quello di Berlinguer, il Pd di Letta ha cercato i suoi voti nei vari Parioli d’Italia e lì è riuscito a trovarli. Non c’è nulla di male in tutto questo. C’è anzi il merito di avere assicurato alla sinistra il voto di un elettorato che, altrimenti, avrebbe votato Calenda o forse Meloni. È dunque inutile che ora il Pd sparga lacrime per avere abbandonato il proletario delle periferie e nutra l’illusione di recuperarlo. Tanto vale consolidare questa sua vocazione borghese e farsene una tranquillizzante ragione e una lodevole missione.

I 5 Stelle, che nelle ultime settimane della campagna elettorale hanno guadagnato 4 punti percentuali di voti, fanno cose di sinistra ma non lo dicono, preferendo definirsi progressisti. Sono stati votati prevalentemente da elettori con la licenza media o, al massimo, il diploma; da studenti, da partite IVA, da operai, da disoccupati, da votanti che si auto-collocano nella classe medio-bassa o bassa. È questa la sinistra che, per composizione sociale della sua base, più si avvicina al Pci di Berlinguer. E sarà questa la sinistra che guiderà in modo più intransigente l’opposizione politica alla destra.

Vi sono poi i piccoli partiti, i cespugli, i gruppi e i gruppuscoli che costellano la sinistra radicale, ostile soprattutto al Pd giudicandolo traditore del paradigma marxista e della lotta di classe. Questa sinistra possiede un patrimonio inestimabile di generosità e di coraggio, nutrito di buone letture, prezioso più che mai nell’imminente fase conflittuale della politica.

Così stando le cose, la ricostruzione della sinistra non consiste, come vagheggia il Pd, nel recupero della sua egemonia sui 5 Stelle e sui gruppi radicali. Né consiste nel costringere le tre formazioni in un unico contenitore, destinato fatalmente a scindersi ben presto, come dimostrano 230 anni di storia. Sta nella orgogliosa consapevolezza della propria specificità da parte di ciascuna delle tre formazioni, ognuna delle quali, procedendo parallelamente alle altre e confrontandosi continuamente con esse, deve approfondire per proprio conto la sua formazione culturale e deve riflettere a fondo sul modello di società postindustriale e socialdemocratica da proporre agli elettori.

Insomma, marciare e crescere divisi fino alle prossime elezioni per colpire uniti quando si tornerà alle urne.

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