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Le bandiere nere dell’Isis spaventano ancora l’Europa. L’analisi di Dambruoso e Conti

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti

In Svezia e Belgio smantellate due cellule pericolose, Siria e Afghanistan culle del terrore. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato ed esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, cultore della materia

Con l’avvento della pandemia di Covid-19 prima e della guerra in Ucraina poi, il contrasto al terrorismo ha perso la sua priorità, complice anche le modificate strategie di al-Qaeda e Stato Islamico, interessate più a stabilizzarsi strutturandosi nuovamente negli spazi a loro favorevoli (come per esempio le aree più remote del Sahel o l’Afghanistan talebano), dismettendo cosi programmi di pianificazione di sanguinosi attentati in Occidente che hanno segnato il decennio scorso. Nonostante ciò, vi è il timore, sottolineato da ambienti militari e di intelligence statunitensi, che proprio l’Afghanistan dei talebani, a meno di due anni del ritiro delle truppe americane e dei contingenti alleati, possa tornare a diventare un hub per il terrorismo internazionale. La situazione politica del Paese, che continua a precipitare in una spirale di mancato rispetto dei diritti umani e di insicurezza per i cittadini, così come di debolezza economica e alimentare, potrebbe infatti essere sfruttato dalle organizzazioni terroristiche presenti in loco per rafforzarsi e poter in seguito passare all’offensiva (anche fuori dai confini afgani).

L’eliminazione delle scorse settimane in Siria di Khalid ‘Aydd Ahmad al-Jabouri, leader dello Stato Islamico coinvolto nelle operazioni “fuori area” del gruppo, dimostra come la minaccia del terrorismo jihadista sia sempre viva, anche quando le sue organizzazioni più organizzate stanno attuando una strategia attendista o più difensiva. La Siria, il Paese parte del defunto califfato territoriale dello Stato Islamico, continua a essere campo di battaglia fra i militanti jihadisti e l’antiterrorismo americano. I primi, presenti nelle zone del deserto centrale e con cellule anche nelle aree urbane, proseguono nell’organizzare attentati con cadenza frequente, prendendo di mira civili siriani o le forze del regime di Bashar al-Assad. In un attacco avvenuto il 17 febbraio, un gruppo di militanti dello Stato Islamico è riuscito a cogliere di sorpresa semplici cittadini che si dedicavano alla ricerca di tartufi nella regione centrale, riuscendo ad ucciderne più di sessanta, numero che riporta tristemente agli attentati in Europa durante l’apogeo dell’organizzazione.

Gli Stati Uniti, i cui militari nel Paese sono stanziati nella base militare di al-Tanf, e che dispongono di centinaia di uomini (fra cui molti delle forze speciali) proprio in funzione anti Stato Islamico, continuano a condurre operazioni per evitare una recrudescenza della minaccia terroristica che possa minacciare anche l’Occidente. In quest’ottica  vanno lette le operazioni mirate volte all’uccisione dei dirigenti o dei quadri dello Stato Islamico, fra cui lo stesso al-Jabouri. A metà febbraio, un raid americano aveva eliminato anche Hamza al-Homsi, altra figura importante del gruppo, mentre a novembre e nel luglio dello scorso anno erano stati uccisi rispettivamente Abu al-Hassan al-Hashemi al-Qurashi, califfo del gruppo, e Maher al-Agal, considerato il responsabile dello Stato Islamico per la Siria. Oltre a tali operazioni, l’antiterrorismo statunitense è attivo in Siria anche contro il gruppo Hurras al-Din, l’affiliato siriano di al-Qaeda.

A migliaia di chilometri di distanza dalla Siria, vi è l’altro teatro dove lo Stato Islamico continua a preoccupare l’antiterrorismo statunitense. Secondo dichiarazioni del Pentagono, Islamic State Khorasan (IS-K), la provincia afgano-pakistana del gruppo, sarebbe infatti prossima ad avere la capacità per attuare operazioni esterne, le stesse per cui lavorava al-Jabouri in Siria. Secondo il generale Michael Kurilla, a capo dello United States Central Command, IS-K potrebbe riuscire a colpire fuori dai confini afgani in meno di sei mesi se non operativamente colpita.

A differenza della Siria, dove gli Stati Uniti sono militarmente presenti e possono contare su milizie amiche come le Syrian Democratic Force in grado di fornire supporto operativo e intelligence, nell’Afghanistan ora tornato in mano ai talebani, l’amministrazione Biden deve ricorrere al cosiddetto over-the-horizon counterterrorism, contando cioè principalmente su sorveglianza satellitare o elettronica a cui affiancare attacchi mirati con droni. Tale approccio è stato evidente nell’operazione cha ha portato all’uccisione di Ayman al-Zawahiri, leader di al-Qaeda, del 31 luglio scorso, mentre si trovava ospite delle alte gerarchie talebane a Kabul.

Gli stessi talebani, ora che controllano il Paese, hanno dovuto dare avvio a vere proprie operazioni antiterrorismo in chiave anti Stato Islamico, l’unica organizzazione in grado di minare il loro monopolio dell’uso della forza. Nonostante la superiorità in uomini e mezzi delle forze talebane, gli attentati orditi dallo Stato Islamico nel Paese non sono terminati, complici anche le stesse poco professionali operazioni di sicurezza dell’emirato afgano, che, tramite interventi con un uso della forza alquanto indiscriminato, hanno  accresciuto  la distanza dalla popolazione che cosi inizia a fornire allo Stato Islamico future nuove reclute. Alcune operazioni del gruppo jihadista hanno dimostrato poi un interesse ad andare oltre un contesto prettamente locale. Nel settembre del 2022, i seguaci del califfato hanno ucciso due dipendenti ministero degli Esteri russo con un attentato suicida nei pressi dell’ambasciata russa a Kabul, mentre a dicembre una cellula dello Stato Islamico ha preso di mira un hotel, sempre nella capitale, noto per essere frequentato da lavoratori e imprenditori cinesi. Proprio Russia e Cina, che hanno importanti interessi nel Paese (e hanno tra l’altro anche supportato il movimento talebano), si trovano ora, dopo il disimpegno della potenza statunitense, nel mirino della propaganda e anche delle azioni terroristiche dello Stato Islamico in Afghanistan.

Secondo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, IS-K avrebbe già fra 1.000 e 3.000 miliziani, oltre a poter contare sulla possibilità di reclutare foreign fighters dell’Asia Centrale,  e possiede un apparato di propaganda digitale strutturato. Tale macchina si era mossa in chiave anti-occidentale a gennaio, a seguito di diversi roghi del Corano ad opera di militanti dell’estrema destra svedese. Le pubblicazioni online di IS-K infatti hanno promesso azioni di ritorsione armata in Europa per punire tali gesti. E proprio ad inizio aprile l’intelligence svedese è riuscita a smantellare una cellula terroristica che aveva intenzione di realizzare un attentato per vendicarsi delle azioni sacrileghe nei confronti del Corano. Nonostante non siano stati ancora rivelati dettagli su tale operazioni antiterrorismo (che peraltro ricalca quanto avvenuto pochi giorni prima in Belgio, dove è stata smantellata un’altra cellula jihadista), è comunque chiaro che l’affiliato afgano dello Stato Islamico, nonostante la distanza geografica, sia in grado di farsi sentire in Europa grazie alla propaganda via web, soprattutto verso i più giovani, che non a caso rappresentano, la maggioranza dei sospetti terroristi arrestati recentemente in Belgio e Svezia.

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