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Phisikk du role – Dove portano le vie tortuose della fiducia

È davvero necessario rafforzare il ruolo del governo come da programma meloniano o è il caso di rimettere il parlamento in condizione di funzionare secondo il dettato costituzionale? La rubrica di Pino Pisicchio

Nei manuali di diritto costituzionale troveremo definizioni del voto di fiducia che raccontano della centralità del parlamento nei regimi democratici. La sovranità popolare espressa dai rappresentanti eletti in parlamento dà e revoca la fiducia al governo, affermando così il legame dell’esecutivo con l’assemblea degli eletti dal corpo elettorale. Questa è la regola nelle democrazie contemporanee, ma ancor più nella forma di governo parlamentare vigente in Italia. Ma la regola non mette al riparo dalle più flessuose interpretazioni, come, per esempio, la possibilità di usare da parte dell’esecutivo questo delicatissimo strumento che è posto nelle mani del parlamento per consentire l’attuazione di un programma governativo coerente con l’indirizzo politico della maggioranza o per revocare il mandato quando, appunto, quella fiducia data all’inizio non c’è più.

Cosa accade, allora? Accade che è il governo e non il parlamento a chiedere la fiducia, con un gesto politico a canone inverso che, evidentemente, è rivolto essenzialmente alla sua maggioranza. Insomma, funziona così: io governo devo far digerire ai miei sostenitori qualche provvedimento che è indigesto ad alcuni settori della maggioranza, o devo rinsaldare rapporti tra alleati in competizione elettorale, oppure rintuzzare alcune posizioni particolarmente aspre su specifici aspetti del programma che rischiano di ledere alla tenuta dell’esecutivo. Per evitare sfrangiamenti e pericoli nella dialettica parlamentare e, soprattutto, nel voto delle singole parti del provvedimento, pongo la fiducia: si chiude ogni dialettica e si lega il destino del governo a quello del provvedimento con un voto solo, quello di fiducia, che vede ogni parlamentare manifestare la sua scelta in modo palese passando davanti ai banchi del governo dichiarando il suo sì o il suo no.

Naturalmente vince sempre il sì, perché se fosse votata la sfiducia significherebbe che gli stessi sostenitori della maggioranza avrebbero votato contro il proprio governo, mandandolo a casa. Il che può essere, per carità, ma, in genere, se c’è questo pericolo il capo dell’esecutivo si dimette prima e non aspetta di essere silurato dai suoi. Chiaro? Allora la fiducia posta dal governo sui suoi provvedimenti finisce per essere uno strumento politico che mette in scacco le Camere, snaturando il significato originario della fiducia parlamentare attraverso una trappola abbastanza sgradevole, che conserva il non lievissimo profumo del ricatto. Beninteso: praticato da tutti i governi delle cosiddette seconda e terza Repubblica, senza differenze di bandiera, anche se con record e primati che vanno riconosciuti.

Per esempio, il governo in carica, è titolare di un record assoluto: solo nel mese di novembre la premier ha posto otto questioni di fiducia, una ogni tre giorni e messo, sabati e domeniche comprese (dati raccolti da Openpolis). Ma è stato un crescendo rossiniano che pure partiva da cifre importanti: Il ricorso alla fiducia nei 13 mesi di durata del governo è stato di 39 volte. Stiamo ragionando su cifre da record assoluto, che sopravanzano anche le esperienze di governo più esposte a provvedimenti emergenziali da approvare sottoforma di decreto, come il governo Monti, che raggiunse lo stesso numero ma in tutta l’arco della sua esperienza.

Diciamo la verità: il parlamento italiano non sta messo molto bene quanto a fedeltà al suo ruolo di legislatore, e il governo Meloni non fa che confermare una tendenza allo svuotamento del suo potere primario che già si era manifestata negli anni passati, anche se in misura leggermente minore.

La riduzione del numero dei parlamentari, dovuta all’infelice ultimo prodotto del populismo condiviso, non ha invertito la tendenza allo svuotamento, anzi l’ha amplificata ulteriormente. Sorge spontanea la domanda, allora: abbiamo proprio bisogno di rafforzare il ruolo del governo con nuove manomissioni alla Costituzione, come da programma meloniano, oppure è il caso di rimettere il parlamento in condizione di funzionare secondo il dettato costituzionale?

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