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La scintilla populista e la banalità del merito. Il commento di Laudadio

Alla base del populismo c’è il tradimento della promessa meritocratica. Abbiamo raccontato un mondo dove impegno e talento garantiscono il successo personale e la realizzazione, ma i dati sulla mobilità sociale ci dicono che questo non è vero. La meritocrazia è l’attribuzione del potere sulla base del merito, ma cosa accade quando l’uguaglianza delle opportunità è soltanto una chimera? Numerosi pensatori ci invitano a rivedere la meritocrazia che rischia di diventare il motore della rabbia che anima il populismo

Cosa spinge milioni di persone, in Italia e nel mondo ad abbracciare posizioni populiste? Immaginate di trovarvi davanti a uno sconosciuto e di dover indovinare se è un populista o meno, sulla base delle sue caratteristiche (età, reddito, professione, titolo di studio…). Credo che non riuscireste a farlo, con un buon margine di sicurezza. Diciamo che io, sicuramente, non ci riuscirei.

Supponiamo che possiate fargli una sola domanda e decidere se è populista o meno dalla sua risposta. Ovviamente, non potete chiedergli direttamente “sei un populista?” anche perché sappiamo che un populista vero non si autodefinisce così.

Insomma, cosa gli chiedereste? Cosa distingue un populista da un non populista?

Io credo che l’elemento centrale del populismo sia il rapporto con la meritocrazia. La domanda decisiva potrebbe essere questa: sei stato tradito dalla promessa del merito? Se la risposta è affermativa, probabilmente è un populista. Se risponde “no”, allora fa parte delle élite, di coloro che amano giustificare la loro posizione sulla base del merito. Oppure di coloro che non sono ancora élite ma che aspirano a esserlo.

Rispetto a tutte le “-crazie” alternative alla democrazia abbiamo sempre la stessa reazione: sorridiamo scherniti perché le consideriamo modelli inadeguati, indipendentemente da quello che siano: aristocrazia, oligarchia, teocrazia, autocrazia, gerontocrazia… Tuttavia, questa reazione non la riserviamo alla meritocrazia, il cui significato etimologico è “potere al merito” perché gli riconosciamo un altro significato: quello di “riconoscimento come criterio unico, o prevalente, per occupare posizioni professionali o per fare carriera”.

Poche cose hanno un consenso tanto esteso come quello che caratterizza il merito. Da sinistra a destra, nessuna persona che si definisce di buon senso si schiererebbe mai contro il merito. Eppure, forse per mancanza di buon senso, ritengo che sia proprio la retorica del merito uno dei principali problemi politici odierni.

Il sociologo laburista Michael Young rese improvvisamente popolare la parola “meritocrazia” nel suo libro “The Rise of the Meritocracy” in cui descriveva una società distopica basata sulla precoce identificazione delle doti degli individui e l’esatta misurazione del contributo individuale alla società. Una società stratificata tra un’élite meritoria, detentrice del potere, e una sottoclasse priva di diritti civili perché meno meritori (vi ricorda qualcosa?). Per Young, “meritocrazia” non era una parola neutra o positiva, ma connotata negativamente. Poco prima di morire, tirò le orecchie a Blair (sul Guardian) per aver scelto il merito come asse portante del suo programma elettorale, la famosa Terza Via, ritenendolo un tradimento della tradizione laburista. Assurdo?

L’equazione meritocratica è essenzialmente:

talento x impegno = risultati (o meglio, successo nella vita).

I populisti hanno vissuto sulla propria, o sulla pelle dei loro cari, che questa promessa è falsa. Da una parte perché nonostante si siano impegnati non hanno ottenuto i risultati promessi. Dall’altra perché non trovano accettabile che l’assenza di talento possa essere una sufficiente causa di esclusione sociale. Molti hanno “lavorato duramente” ma non abbastanza da “meritare” qualcosa.

La meritocrazia è illusoria perché si può sviluppare (e sarebbe auspicabile si sviluppasse) solo davanti all’uguaglianza delle opportunità ma sappiamo perfettamente che le opportunità non si distribuiscono omogeneamente nella popolazione, semmai si concentrano in alcune zone, che sono abitate dalle élite, a discapito di altre, che diventano propense a scegliere posizioni populiste. La fiducia cieca nella meritocrazia, come diceva Young, è pericolosa.

Michael Sandel, professore di Teoria del governo all’Università di Harvard, ne evidenzia il rischio politico. La retorica dell’ascesa, nata come giustificazione positiva alla globalizzazione, è basata sul presupposto che se tutti hanno le stesse opportunità, allora chi emergerà grazie al proprio talento o al proprio sforzo se lo sarà meritato. Se invece non riuscirà a emergere, la responsabilità sarà soltanto sua. Ma Sandel ci mette anche in guardia dal fatto che l’uguaglianza delle opportunità resta una chimera e che l’esclusione da parte delle élite meritocratiche, di chi di quella élite non fa parte, non può che produrre un contraccolpo populista attratto dalla contrapposizione alle umiliazioni e alle discriminazioni che avvengono sotto la bandiera del tanto decantato merito. Sandel evidenzia come da Reagan ad Obama la retorica meritocratica sia diventata preponderante, anche nel linguaggio parlato, creando una contrapposizione tra smart (intelligenti) e stupidi. L’uso di “ti meriti” è esploso anche nel linguaggio pubblicitario, come leva persuasiva. Smart è diventata una parola onnipresente. Sandel non esita dallo spiegare in questa chiave (con dovizia di dati) l’esito della Brexit e la sconfitta di Hillary Clinton, paladina – come il marito – della meritocrazia.

Anche Papa Francesco sottolinea il rischio sociale: “La tanto osannata meritocrazia, una parola bella perché usa il merito, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere”.

Un populista è qualcuno che è stato “fregato” dall’equazione del merito, non da quella che ho descritto prima, semmai da quella vera:

talento x impegno x opportunità x casualità = risultati (successo nella vita).

Se cresciamo i nostri figli nell’illusione meritocratica, senza spiegare che il caso e le opportunità concorrono a determinare il successo, rischiamo di creare una generazione di frustrati che non sapranno spiegarsi il perché dei mancati risultati.

Purtroppo, come ha scritto Sen, la “meritocrazia ha tante virtù ma non la chiarezza”. Infatti, non è chiaro chi decida i criteri (e chi gli abbia dato “democraticamente” questo potere): cosa sia il talento e come si misura l’impegno. Viviamo una stagione in cui “oggettivo” è diventato sinonimo di “giusto”. È un errore! Semmai, oggettivo significa metodologicamente corretto. Ma quello che è metodologicamente corretto non significa che sia giusto o etico.

Anche se non esplicita, l’opposizione all’ideologia meritocratica produce effetti evidenti. In primo luogo, il disconoscimento dell’autorevolezza degli esperti, asse portante della meritocrazia (chi merita può esprimersi su un tema e deve essere ascoltato). Inoltre, la perdita della fiducia nelle scienze e nei metodi oggettivi che servono alle élite a sostenere lo status quo. L’oggettività viene vissuta come un sopruso alla libertà di espressione democratica, ma in realtà è il rifiuto dei criteri meritocratici. Le posizioni sono inconciliabili: da una parte l’individuo è autorevole in sé (democrazia) dall’altro l’autorevolezza dipende dal merito (meritocrazia).

La meritocrazia vive e regna nelle aziende, dove il merito è misurato (spesso ma non sempre) in effetti economici. Qualcuno si sta accorgendo di quanto stiamo “aziendalizzando” la società? Oppure, di quanto stiamo “aziendalizzando” l’educazione dei nostri figli?

Se vogliamo fermare il populismo dobbiamo mettere in discussione la meritocrazia rileggendola in chiave democratica, interrogarci sul suo essere ancora incompiuta in un Paese in cui l’estrazione familiare è ancora il miglior predittore del successo di una persona e in cui la mobilità sociale peggiora di anno in anno e aumentano le disuguaglianze. Ricordiamolo sempre: rispetto alle opportunità di lavoro siamo sessantatreesimi su 82 Paesi per il Global Social Mobility Report del World Economic Forum.

Attenzione a invocare il merito, potrebbe essere solo la foglia di fico dell’ingiustizia sociale. Dopotutto, come scriveva Victor Hugo: “È una cosa ben schifosa, il successo: la sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini”.

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