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La povertà e le baruffe della politica. L’analisi di Polillo

Gli ultimi dati Istat relativi alla povertà, per l’anno passato, hanno sollevato, come era facilmente prevedibile, polemiche roventi. Ma per evitare ulteriori polveroni è necessario partire dai dati. I quali, alla fine, faranno diventare rosso di vergogna chi, oggi, batte i pugni, reclamando maggiori provvidenze nella lotta contro quella povertà. Il commento di Gianfranco Polillo

Gli ultimi dati Istat relativi alla povertà, per l’anno passato, hanno sollevato, come era facilmente prevedibile, polemiche roventi. Del tipo “piove, governo ladro!”. Imputando a Giorgia Meloni le responsabilità dell’accaduto. Che venga in Aula: gridano all’unisono Dario Carotenuto dei 5 Stelle e Marco Furfaro del Pd. Aveva promesso la luna ed invece, “numeri incontestabili” dimostrano che siamo di fronte ad una vera “macelleria sociale”.

Non era stata seria quando aveva affermato “di avere la ricetta giusta e allora il test psico-attitudinale”, triplo salto mortale, dovrebbe farlo lei “e non i magistrati”. Normali carezze da campagna elettorale. Se il tema, invece, non fosse estremamente serio. Non solo per coloro che (come vedremo tra un attimo) sono tanti ad essere impigliati nella rete del malessere sociale. Ma per l’immagine stessa di una Nazione che non riesce a far fronte (ma anche questo va spiegato) alle più elementari necessità della sua gente.

Per evitare ulteriori polveroni è necessario partire dai dati. Nell’anno appena trascorso, secondo l’Istat, la spesa media mensile delle famiglie è aumentata in termini correnti del 3,9%. Ma poiché l’inflazione, a sua volta, è cresciuta del 5,9%. La contrazione è risultata essere dell’1,8. Fin qui nessuna obiezione. Anche se si tratta, al momento, di dati provvisori. I definitivi saranno forniti il prossimo ottobre. Altro elemento di rilievo: non vi sono “particolari differenze tra le famiglie più o meno abbienti”.

Sembrerebbe quindi che l’inflazione abbia operato come la “livella” della bella poesia del Principe Antonio De Curtis, in arte Totò. Sembrerebbe: ma di fatto il peso delle famiglie in povertà assoluta è cresciuta dall’8,3 all’8,5 per cento del totale. Mentre quella degli individui è rimasta “pressocché stabile” con una differenza dello 0,1 per cento (dal 9,7 al 9,8%) che statisticamente non rileva. Si tratta comunque di 2,235 milioni di famiglie, per un totale di 5,752 milioni di persone.

Un carico indubbiamente rilevante per un Paese che si vanta di essere l’ottava economia del Pianeta. Va solo aggiunto che nel 2023 le cose sono andate, comunque, meglio che nel 2022. Allora le famiglie in povertà erano aumentate di 357 mila unità, rispetto al 2021, (più 8,2%) contro le 166 mila dell’anno successivo (più 2,2%). Stesso risultato per gli individui. I poveri del 2022 erano aumentati di 357 mila unità, rispetto all’anno precedente (più 6,7 per cento) contro un aumento di 78 mila unità (più 1,4%) l’anno successivo.

Elementi che dimostrano la strumentalità di un’indignazione a comando, che impedisce di cogliere le cause reali che sono all’origine di un fenomeno che, invece, andrebbe analizzato con la necessaria serietà. Gli altri rilievi dell’Istat consentono di fotografare meglio la situazione italiana. Il grado di povertà varia in relazione ad altri paramenti, a cominciare dal numero dei componenti la singola famiglia. I maggiori incrementi si registrano per le famiglie composte da 4 membri, che crescono di 1 punto percentuale.

Mentre le famiglie con 5 membri vedono migliorare la loro posizione di circa 2,2 punti. La spiegazione potrebbe essere fornita dalla presenza al loro interno di pensionati. Questi ultimi infatti migliorano seppur di poco (meno 0.1 punto) la loro posizione. Per le restanti posizioni professionali va notato come gli autonomi (meno 0,9 punti) possano tirare un respiro di sollievo, mentre per i dipendenti (più 0,8 punti) aumenta la sofferenza. Fenomeno facilmente decifrabile. In un contesto inflazionistico gli autonomi adattano più rapidamente il compenso delle loro prestazioni alla variazione dei prezzi. Mentre per i dipendenti il recupero è ben più lento.

Un dato di sintesi, infine, deve far riflettere. La percentuale di famiglie povere, composte di soli italiani, è rimasto stabile. Mentre quella relativa alle sole famiglie straniere cresce di ben 2,4 punti, passando dal 33,2 al 35,6%. Sembrerebbe quindi che quel leggero peggioramento, indicato in precedenza per il totale delle famiglie resistenti sul territorio nazionale, sia dovuto prevalentemente alla caduta dei redditi degli stranieri. Fosse così, sarebbe l’ulteriore riprova della necessità di limitare il flusso migratorio. Un terzo di quelle famiglie, che vive nel miraggio della terra promessa, è poi costretta a barcamenarsi in una condizione di povertà assoluta, con tutto ciò che ne consegue anche ai fini della sicurezza.

Le difficoltà che si incontrano nell’offrire loro un’esistenza dignitosa ne fa una massa di sbandati. Per altro incattiviti per aver dovuto sostenere il costo del pizzo pagato agli scafisti. Questo quindi il quadro generale, che non si presta alle facili levate di scudi. Nella loro sintesi i dati, elaborati dall’Istat, mostrano il persistere di un fenomeno che non è congiunturale, ma di natura strutturale. E di conseguenza richiede politiche economiche e sociali di medio periodo.

A sinistra, invece, si pone l’accento sul cambio di passo che è intervenuto a seguito delle modifiche introdotte sul reddito di cittadinanza. “Secondo un recente studio della Banca d’Italia” scrive ad esempio Franco Mostacci sulla Voce.info (9/2/2024), “per effetto della revisione, le misure di contrasto alla povertà avranno una portata più limitata, causando una riduzione della platea dei potenziali beneficiari (da 2,1 a 1,2 milioni di nuclei familiari) e, a parità di condizioni, un aumento della povertà assoluta e una maggiore concentrazione del reddito. Sulle spalle dei soggetti più deboli, lo stato risparmierà a regime circa 1,7 miliardi di euro”.

Nulla ovviamente si dice sulle storture di quell’istituto che, di fatto, si traduceva in un disincentivo all’offerta di lavoro. Senza considerare le pratiche illegali, dal lavoro nero alle vere e proprie truffe nei confronti dell’Inps, che alimentava. Naturalmente che la stretta ci sia stata è difficile da negare. Ma essa è stata la conseguenza di una coperta troppo corta. Di un deficit di bilancio che è progressivamente cresciuto fino a debordare di quasi 2 punti di Pil rispetto alle originarie previsioni della Nadef. Il tutto, mentre in Europa, le Nuove regole del Patto di stabilità, di fatto, inibiscono il ricorso ai canoni della finanza allegra.

Quel benign neglect, mai dimenticarlo, che nel 2020 aveva prodotto, sotto l’usbergo di Giuseppe Conte ed il suo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, un aumento del rapporto debito pubblico di ben 20,7 punti, il più alto della storia d’Italia in tempo di pace. Si poteva fare meglio? Certamente: bastava utilizzare con criterio le scarse risorse disponibili. Prendiamo il caso dei bonus edilizi, che il Consiglio dei ministri, ha deciso giustamente di sospendere. Peseranno sul bilancio dello Stato per 150 miliardi di euro.

Un beneficio che riguarderà, si e no, il 4% delle famiglie. Una percentuale più o meno analoga ai nuclei che hanno percepito il reddito e la Pensione di cittadinanza (dati della Banca d’Italia nel paper citato da Franco Mostacci). Alle prime, grazie al bonus, saranno corrisposte qualcosa come 145 mila euro, ai secondi, come indicato nello studio della Banca d’Italia, 6.135. Una differenza talmente marcata che dovrebbe rendere rosso di vergogna chi, oggi, batte i pugni, reclamando maggiori provvidenze nella lotta contro quella povertà. Che qualcuno aveva dichiarato estinta dal balcone di Palazzo Chigi.

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