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La Cina malata non conviene a nessuno. L’analisi di Foreign Affairs

Dal Congresso del popolo sono usciti obiettivi di politica economica strampalati e, soprattutto, poco utili a rimettere in piedi il Dragone. La verità è che o Pechino risolve seriamente i suoi problemi dall’interno o continuerà a colmare le sue lacune a colpi di concorrenza sleale. E questo è un danno per tutti

Guai cinesi, problemi globali. A tre settimane della fine del Congresso del popolo, dal quale è uscita l’agenda economica cinese, per il Dragone è tempo di continuare a vedersela con lo scetticismo circa le sue possibilità di uscire dal tunnel. Cosa che, sostengono gli economisti Daniel H. Rosen e Logan Wright dalle colonne di Foreign Affairs, a dire il vero converrebbe un po’ a tutti. Come a dire, se la Cina guarisce (Country Garden Holdings, uno dei maggiori gruppi immobiliari cinesi, in difficoltà, ha dichiarato martedì che la negoziazione delle azioni alla Borsa di Hong Kong sarà sospesa dopo aver perso il 38% da inizio anno, tanto per dirne una), al mondo non può che giovare.

“L’economia cinese è cresciuta a malapena negli ultimi due anni. Le cause immediate, tra cui il calo dell’edilizia immobiliare e le maldestre politiche zero Covid che hanno indebolito gli investimenti del settore privato, sono ben note. Ma le radici della stagnazione sono sistemiche e le aziende e gli analisti cinesi, così come i governi e le imprese di tutto il mondo, hanno atteso con trepidazione che Pechino chiarisse i suoi piani per riportare l’economia del Paese su un percorso più stabile. Ma così non è stato”, scrivono i due economisti.

“L’esito del Congresso del popolo, conclusosi l’11 marzo, ha aumentato anziché placare le legittime preoccupazioni dei Paesi stranieri verso la Cina. Di fronte a una situazione economica che richiede riforme strutturali per aumentare la produttività e allineare la domanda interna con la produzione, i leader cinesi hanno invece presentato un mix di politiche che ritarderà i cambiamenti necessari e approfondirà la dipendenza dell’economia da fonti di domanda estere”. Insomma, a Pechino non sanno bene da che parte cominciare, almeno secondo i due esperti.

Per i quali, “oggi, la domanda è se Pechino accetterà di correggere le sue politiche, come ha fatto il Giappone”. A partire dalle politiche commerciali, scorrette e fuori concorrenza. “Per alleviare il problema nel breve termine, la Cina avrebbe bisogno di un forte stimolo fiscale. E per risolvere il problema a lungo termine, la Cina deve trasferire risorse dallo Stato alle famiglie, sia direttamente attraverso pagamenti in contanti o azioni in imprese statali, sia indirettamente attraverso cambiamenti nelle politiche fiscali o sussidi per l’edilizia abitativa, la pensione, l’assistenza medica e altri servizi, questo deve fare”.

“Ma dal Congresso nessuna prova del genere è emersa. Gli obiettivi economici di Pechino mostrano non solo che il paese rimane fedele al suo vecchio modello di sviluppo basato sulle esportazioni e sugli investimenti, ma anche che potrebbe addirittura pianificare di espandere la capacità manifatturiera cinese per aumentare ulteriormente le esportazioni, sempre con pratiche aggressive. Il Dragone dovrebbe invece riconoscere le valide ragioni dei Paesi stranieri, che lamentano la concorrenza sleale e introdurre politiche commerciali protettive, almeno fino a quando la stessa Cina non realizzerà riforme strutturali in patria”.

In mancanza di tale sterzata, “i governi occidentali prenderanno in considerazione restrizioni sempre più draconiane al commercio cinese, per difendersi. Questo shock potrebbe essere ciò che è necessario affinché la Cina prenda sul serio le riforme strutturali, per il bene della propria salute economica e nella speranza di evitare una spaccatura irreparabile nel globo”.

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