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La prassi e la tangenziale. La discrezionalità della Pa secondo Carmine Biello

Di Carmine Biello

Semplificare deve cioè aiutarci a governare la complessità, a sfrondarla dalla complicazione quella sì un’insidia, non ambire a fungerne da alternativa. Sarebbe come voler usare la tangenziale per girare in centro città. Il commento di Carmine Biello

“Vi auguro di essere sempre capaci di corrispondere alle vostre responsabilità senza mai essere tentati di sfuggirvi”. Così il Capo dello Stato sulla responsabilità, nel suo recente messaggio ai neo-dirigenti della Pa, che rimanda al tema sempre attuale della cosiddetta paura della firma. Della discrezionalità aveva invece parlato il Presidente del Consiglio di Stato, in occasione del suo insediamento: “il vero organo respiratorio del sistema amministrativo”, spesso percepita addirittura come “fattore criminogeno”.

Un binomio certo indissolubile. Aggirare la discrezionalità è la via per sfuggire alla responsabilità e trincerarsi nel regno della forma, il mero velo che per contro “la legge impone alla Pa di squarciare” (CdS, 2014). Molto altro poi nel nuovo Codice Appalti, come la fiducia, il risultato o il caso concreto, ma quelle tre parole bastano già per inquadrare. Senonché il profluvio di una legislazione sempre più prescrittiva, ma ingarbugliata, votata al mantra di semplificazione e accelerazione, e la presenza pervasiva della giustizia, attenta a marcare i territori dei diritti e degli interessi, hanno via via ridotto e sfumato i margini di manovra propri della discrezionalità: finendo per mortificarla, anziché promuoverla.

Con il risultato di assecondare la latente tendenza all’arrocco di una parte della Pa. Né aiuta la proliferazione delle rendicontazioni, complicate e accavallate, che anzi contribuiscono a disorientare i comportamenti, inducendo a scambiarle come risultato, quasi che adempiere scrupolosamente ad esse esaurisca il compito consapevole. Tuttavia, più che di “tentazione all’irresponsabilità” (L. Caso), parlerei piuttosto di semplice istinto di sopravvivenza, quello che di solito ci fa rallentare in caso di nebbia.

A frenare non è il timore dei controlli, che al più vanno riorganizzati, non depotenziati, ma la non chiara percezione dei rischi che ci si assume e di come sono attribuite le responsabilità, limitare o annullare le quali non sembra sia vincente, anzi. Lo “scudo erariale”, ad esempio, non ha prodotto sin qui risultati evidenti. La scansione impellente dei tempi obbliga la macchina a muoversi: la norma prova ad indicare la rotta, ma non convince, perché inguaribilmente volubile e tortuosa, non riesce ad arrivare agli ingranaggi del motore, alle scrivanie degli uffici: si imbatte nella prassi, la veste impenetrabile che si cela sotto il velo della forma.

Ecco l’altro binomio chiave.

La prassi è quel substrato di regole di rango secondario che la Pa si auto-prescrive con il riparo della forma (circolari, regolamenti, determine, ecc), spesso rimesse all’imprimatur del livello politico, le quali non hanno dignità di diritto vivente, ma sono la vera bussola dell’azione amministrativa. Essa si insinua tra le pieghe della norma primaria e della giurisprudenza, attraverso il dedalo delle competenze locali, e traccia al millimetro la rotta, quella meno attaccabile (più che la migliore). Rotta che si consolida subito, perché vicina, precisa, protettiva: ogni passo una procedura, difficile poi da scalfire.

Prendiamo ad esempio il caso emerso all’Urbanistica di Milano: diverse centinaia di interventi edilizi importanti, in corso o già completati, potrebbero risultare di dubbia liceità, anche se sviluppatisi attraverso atti formalmente regolari. Una determina del 2018 estendeva l’applicazione di un percorso semplificato di sola autocertificazione a tutte le opere, incluse le nuove costruzioni, purchè in linea con il Piano generale di riferimento: si riteneva cioè non più necessario il rilascio di un permesso in caso di interventi con caratteristiche “già pienamente definite e conformate nello strumento urbanistico generale”.

In più, sin dal 2012, l’Amministrazione si adusava a non ricorrere ad alcuna pianificazione di dettaglio per gli edifici di altezza superiore ai 25 metri (grattacieli inclusi), al contrario di quanto previsto dalla normativa nazionale. Ciò secondo una precedente legge regionale che aveva “disapplicato” detta normativa, in forza del “riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni”. In proposito, così concludeva assertivamente una Circolare interna dello scorso luglio: “la prassi interpretativa e applicativa, da tempo consolidata” presso gli Uffici Comunali, risulta pertanto conforme”, “benché recentemente contestata”, ed è stata applicata “con un’invariata coerenza amministrativa” da più di dieci anni.

La prassi dunque che prevale e il suo stesso consolidarsi che la promuove allo status di giurisprudenza. I procedimenti avanzano pertanto in maniera sempre più adempitiva e il momento decisionale, nel quale dovrebbe manifestarsi autorevolmente l’assunzione di responsabilità, diventa rarefatto e sfuggente. La verifica formale deborda, quella di merito diventa residuale, con buona pace del diritto/dovere del “giusto procedimento”.

In appoggio poi la pianificazione, ai vari livelli: cioè i Piani, enciclopedici, conformativi, minuziosi al massimo (altezze, distanze, volumi, sagome). L’aderenza ad essi diventa sufficiente, oltre che necessaria, la qualità progettuale retrocede, il procedimento passa ad essere di natura solo accertativa e la parte precettiva (il cuore) del provvedimento si dilegua: la discrezionalità latita, la responsabilità si disperde. Pensiamo allora per un momento all’IA: tra quanto sarà lei a verificare in tempo zero il rispetto della prassi e la conformità dei progetti ai Piani? E magari a produrre da sé quella prassi, quei Piani e quei progetti?

Sarà il trionfo del cronometro e dell’automatismo: ma basterà? Ebbene, nel discutere di responsabilità della Pa, meglio riportare al centro anche la discrezionalità: non derubricarla, ma tutelarla, rispettarla, valorizzarla, evitando la parola “residuale” e tornando alla prassi (quella buona) come mezzo, non fine. Ponderare e decidere non devono retrocedere, neanche dinanzi a standardizzazione o digitalizzazione: altrimenti non riusciremmo più a misurarci con la complessità, che è una costante dei fenomeni che viviamo, non una patologia.

Anzi è una sfida “bella e faticosa per la nostra intelligenza”, così Mons. Galantino, “che accresce il senso di responsabilità”: mentre “la semplificazione garantisce certezze, non necessariamente verità”. Semplificare deve cioè aiutarci a governare la complessità, a sfrondarla dalla complicazione (quella sì un’insidia), non ambire a fungerne da alternativa. Sarebbe come “voler usare la tangenziale” per girare in centro città.

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