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Quali politiche climatiche per la prossima Commissione? Dai target agli investimenti

Di Simone Mori

Non è probabile che, qualunque sia l’esito elettorale, l’obiettivo di coniugare sviluppo economico, sostenibilità e indipendenza energetica possa essere messo in discussione. La Commissione entrante dovrà concentrarsi sul come fare, consapevole del fatto che la transizione non viaggia sulle gambe delle politiche, ma sulla capacità di investimento e di innovazione delle imprese. Il commento di Simone Mori, professore di Economia dell’Energia alla Luiss ed Energy policy advisor

La presidenza Ursula von der Leyen sarà ricordata, oltre che per la gestione delle crisi, per un deciso orientamento alle priorità ambientali e climatiche. La crescente sensibilità delle opinioni pubbliche, soprattutto nordeuropee, è stata una delle cause di tale impostazione, insieme alle elezioni del 2019 che hanno attribuito un potere decisivo a forze politiche che sui temi dell’ambiente radicano parte importante del proprio consenso, a partire dai Cinque Stelle italiani. La scelta di affidare le politiche climatiche a una figura come Franz Timmermans, politico navigato che ha svolto questo ruolo in modo aggressivo e visibile, ha portato alla formulazione di una serie di pacchetti il cui livello di ambizione e impatto comunicativo sono andati sempre crescendo.

La Commissione ha raccolto critiche dure da parte di settori industriali e politici convinti che i piani europei fossero viziati da un integralismo ambientalista, poco rispettoso delle esigenze dell’industria e sostanzialmente velleitario, considerando la modesta dimensione dell’impatto europeo sul clima. Inoltre, la necessità di ricorrere a tecnologie e materie prime chiave di cui non disponiamo porterebbe a sostituire la nostra dipendenza dai paesi produttori di combustibili fossili a quelli che producono e lavorano i principali minerali critici.

La Commissione viene anche tacciata di eccedere nella microregolazione, riflesso di un “dirigismo ideologico” che anziché affidarsi al fisiologico progresso tecnologico indotto dal mercato impone scelte aprioristiche in campi diversi, dalla decarbonizzazione dei trasporti, all’ecodesign, all’uso della plastica, agli imballaggi fino al rifacimento degli edifici civili. La critica è in parte legittima, soprattutto quando si rivolge a misure “bandiera” che sembrano introdotte per portare la discussione fuori dalle oscure tecnicalità tipiche delle proposte della Commissione ponendole all’attenzione del pubblico più ampio. Il famigerato bando ai motori a combustione interna ne è esempio calzante.

Ma il confronto a colpi di slogan porta in secondo piano il merito delle misure e riduce la capacità di guardare in modo oggettivo alle complessive dinamiche globali nel cui ambito le politiche europee si collocano. Partiamo da una osservazione generale: la transizione energetica non è il vezzo di un continente ricco e viziato che si permette il lusso di perdere competitività in un mondo di concorrenti cinici che, grazie ad un uso spregiudicato di sussidi pubblici e dumping socio-ambientale prenderanno fatalmente il sopravvento su di noi.

Decarbonizzare significa ridurre la dipendenza da materie prime importate, fare più con meno risparmiando l’uso di risorse di cui non disponiamo e, quindi, riducendo la forbice competitiva nei confronti di chi quelle risorse ha la fortuna di averle sottoterra, visto che il benessere europeo non si basa sul ricorso alle commodities energetiche, di cui non disponiamo se non in misura del tutto marginale. Inoltre, il nostro punto di partenza è nettamente più avanzato di quasi tutto il resto del mondo, visto che usiamo meno energia e produciamo meno CO2 per vivere e per produrre beni e servizi (indicatore che vede peraltro l’Italia ai livelli massimi assoluti, grazie all’efficienza dei nostri settori produttivi, in particolare quelli energy intensive).

Se è poi vero che sul fotovoltaico l’Europa è in oggettivo ritardo, in altri segmenti la sfida è agli inizi. In quello delle batterie, fin dal lancio della Battery Alliance nel 2017, si sta investendo in Europa nella realizzazione di numerose mega-fabbriche e nello sviluppo di tecnologie innovative. Il mercato degli elettrolizzatori per produrre idrogeno verde è ancora embrionale, in quello delle pompe di calore il ruolo europeo è tutt’altro che marginale. E in molte altre tecnologie, dalle reti elettriche alle soluzioni per l’efficienza energetica, le aziende europee sono spesso leader globali sia dal punto di vista delle quote di mercato che della competenza tecnologica.

L’Europa ama evidenziare il proprio soft power, quello che la Anu Bradford definisce “l’effetto Bruxelles”, grazie al quale le imprese globali tenderebbero a conformarsi agli stringenti standard europei per non essere escluse dal nostro vasto mercato, facendo della nostra regolamentazione un riferimento globale. Questa teoria è influenzata da una visione eccessivamente ottimistica dell’impatto delle regole ideate dai tecnici di Bruxelles, e non è affatto detto che la capacità di esportare modelli di regolazione sia di per sé un fattore di vantaggio competitivo.

Ma è vero che le regole europee sono spesso diventate standard globali, come nel caso dei meccanismi di carbon trading che, introdotti in Europa, sono stati adottati in nord America e in diverse zone del Pacifico. Del resto, si tratta di un fenomeno noto anche negli Usa, dove gli standard di sostenibilità fissati da uno stato “verde” come la California tendono a diventare la regola per l’intero mercato nazionale. Presi dal dibattito un po’ asfittico e autoreferenziale sulle decisioni di policies, tendiamo a perdere di vista i fondamentali del mercato. Un esempio lampante è quello della mobilità elettrica: per anni si è discusso degli standard di decarbonizzazione per i trasporti, come se il futuro della mobilità dipendesse solo dalle decisioni di Bruxelles.

Mentre noi discutevamo, non ci siamo accorti che la Cina ha ottenuto risultati oggettivamente impressionanti. Se il decollo di questo settore è stato avviato dagli aiuti pubblici per ridurre l’inquinamento nelle grandi città, oggi le aziende automobilistiche cinesi godono di ottima salute finanziaria e vendono in tutto il mondo auto di buona qualità a prezzi competitivi. La discussione fra fautori e nemici della mobilità elettrica – assai vivace e politicamente polarizzata anche negli Usa – rischia di concentrare l’attenzione su temi regolatori mentre la decarbonizzazione del trasporto privato viaggerà sul miglioramento tecnologico e sulle scelte dei consumatori.

Anche il paradigma dell’Europa ingenua in un mondo di cinici inquinatori non regge ad una analisi più profonda. Guardiamo ancora alla Cina, paese le cui emissioni superano il 30 per cento di quelle globali, più che doppiando quelle Usa. Il processo di adozione tecnologica in Cina sta seguendo un percorso accelerato rispetto a quanto avvenuto da noi: dal 2010, le emissioni per unità di prodotto cinese si sono ridotte di circa il 55%, grazie a efficienza e fonti rinnovabili. Se è vero che il boom iniziale delle rinnovabili è stato un fenomeno essenzialmente europeo, grazie agli incentivi, eccessivi e tecnicamente sbagliati in Germania ed Italia, oggi la Cina, è il principale investitore in questa tecnologia: nel 2022 la Cina ha installato quasi la metà dei pannelli a livello planetario, diventando di gran lunga il principale produttore di elettricità dal sole, con quasi il 40 per cento della capacità mondiale a fronte dell’11 per cento degli Stati Uniti e del 6% della Germania.

Insomma, allargando la visuale si vede bene che è in atto un processo globale che, grazie all’adozione di energie rinnovabili e al miglioramento dell’efficienza nell’uso delle risorse, avvicinerà la performance ambientale dei paesi emergenti a quella dei Paesi più sviluppati: le tecnologie della transizione vengono adottate se rappresentano una soluzione industrialmente efficiente per rispondere, oltre che problemi climatici e di inquinamento, alla fame di energia di economie in transizione. Ciò dovrebbe portare un po’ di ottimismo guardando al futuro delle regioni più arretrate, a partire dall’Africa subsahariana che raddoppierà i propri consumi energetici entro la fine del decennio e potrebbe beneficiare di una discontinuità tecnologica simile a quanto avvenuto con la telefonia mobile per uscire, grazie alla produzione rinnovabile decentrata, dalla povertà energetica che affligge ancora oltre 600 milioni di persone.

La transizione è nei fatti, sta avvenendo da noi e negli Usa, dove non si è fermata nemmeno nel quadriennio di Presidenza Trump, in Cina e in parte rilevante dei paesi emergenti. È un fenomeno che ha una molteplicità di cause, politiche, economiche e tecnologiche, destinato a procedere con la tipica andatura “stop and go” dei salti di paradigma e avrà avere effetti largamente positivi su ambiente, competitività e sicurezza geopolitica. Ma è un fenomeno da governare in modo realistico e lucido, sottraendosi al gioco degli slogan e delle parole d’ordine, tenendo conto che il cambiamento impatterà profondamente le nostre società.

La prossima Commissione avrà l’occasione di impostare una agenda industriale ed ambientale concentrata sul merito dei concreti strumenti volti ad accompagnare la transizione. Il punto di partenza dovrebbe essere il riconoscimento del fatto che la transizione è soprattutto un processo industriale. La capacità dell’Europa di raggiungere i propri obiettivi si basa sulla disponibilità di tecnologia, investimenti e capacità produttiva delle nostre imprese.

Non serve rimettere in discussione la filosofia di base della policies ambientali dell’Unione, nessuno contesta l’opportunità di promuovere la transizione energetica difendendo nel contempo la competitività del sistema economico europeo, ma vanno identificati i meccanismi giusti affinché la transizione possa rispettare alcuni principi fondamentali: rispetto della concorrenza, level playing field a livello europeo, uso efficiente dei meccanismi di sostegno alle tecnologie per la decarbonizzazione.

L’unione economica europea è stata costruita nel rispetto dei valori della piena concorrenza fra le imprese all’interno dei confini continentali; nel tempo la Commissione, con qualche accanimento terapeutico tipico della cultura della Dg Competition, è riuscita tutto sommato a contenere le interferenze regolatorie e gli aiuti asimmetrici da parte dei singoli stati e a preservare un buon funzionamento del mercato interno. Questo principio è stato messo in discussione molte volte, sotto la pressione delle crisi, degli interessi nazionali e della necessità di raggiungere obiettivi, quali quelli climatici, che le sole spinte del mercato non sono in grado di garantire.

Inoltre, nel tempo si è modificato radicalmente il perimetro concorrenziale cui le grandi imprese europee sono sottoposte, dovendo competere in un campo da gioco globale con giganti cresciuti in ambienti protetti e beneficiari di ampie sovvenzioni statali. A partire dalla crisi pandemica si è chiesta una maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole sugli aiuti di stato, che ha portato la Commissione ad autorizzare oltre quattro trilioni di euro di aiuti. Nel grande dibattito che ha fatto seguito all’introduzione negli Usa dell’Inflation Reduction Act, si è perso di vista che gli aiuti pubblici messi a disposizione delle imprese europee hanno superato quelli americani.

L’allentamento delle briglie sugli aiuti di stato svantaggia le imprese dei paesi con minore capienza fiscale, fra i quali ovviamente il nostro, che rischiano di essere penalizzati non solo nei confronti dei competitors extra-Ue ma anche di chi in Europa, può beneficiare di aiuti maggiori. Il rischio è quello di un sistema ad arlecchino nel quale a specifico problema si risponde con specifico strumento, creando un patchwork di soluzioni non armonizzate, inefficienti e distorsive delle logiche competitive. Le regole degli aiuti di stato dovrebbero essere riformate in modo strutturale, definendo in modo più certo i casi nei quali è lecito intervenire, armonizzando gli strumenti di sostegno e introducendo meccanismi di finanziamento a livello europeo in modo da preservare la parità di condizioni fra i diversi paesi dell’Unione.

Le politiche climatiche europee, analogamente a quanto avviene nel resto del mondo, prevedono la definizione di obiettivi di medio termine e la successiva introduzione di strumenti regolatori che ne consentano il raggiungimento nei casi nei quali la sola forza del mercato non offra segnali sufficienti agli investitori. Alla Commissione viene spesso rimproverata la proliferazione di target, che generano inutili discussioni su obiettivi lontani, magari sempre più ambiziosi e velleitari. Gli investimenti richiedono chiarezza del quadro di riferimento futuro e i target servono a questo scopo: fornire una direzione, indicando che nel futuro ci sarà, ad esempio, meno spazio per il carbone rispetto all’idrogeno. Sbagliato è impiccarsi ai singoli obiettivi, magari usandoli come metro del successo di una fazione e mettendoli al centro del dibattito politico. Una possibile soluzione potrebbe essere l’introduzione di meccanismi intrinsecamente flessibili che consentano aggiustamenti dei target secondo criteri predefiniti per rispondere alle dinamiche tecnologiche e di mercato.

Il principio di neutralità tecnologica è spesso invocato da chi contesta le scelte della Commissione Europea, in contrapposizione alla selezione a priori delle tecnologie vincenti. Concetto nobile e universalmente condivisibile ma assai complicato da gestire sia dal punto di vista teorico che pratico.
Ad esempio, l’Europa ha già introdotto da quasi venti anni un meccanismo teoricamente perfetto per garantire la neutralità tecnologica nella riduzione delle emissioni, l’Emissions Trading Scheme.

Peccato che l’ETS, a causa della volatilità del prezzo della CO2, ha da subito dimostrato di non riuscire a stimolare significativi investimenti in decarbonizzazione tant’è che il primo esempio di target settoriali, il pacchetto 20-20-20 al 2020, fu introdotto proprio per indurre politiche mirate, e quindi non tecnologicamente neutre, su fonti rinnovabili ed efficienza energetica. Il concetto di neutralità tecnologica si porta dietro ulteriori problemi. Il principale è quello che potremmo chiamare “dell’uovo o della gallina”: la competitività relativa delle tecnologie cambia nel tempo, con il miglioramento di quelle oggi meno mature. Come si fa a mettere in concorrenza una soluzione che assicura un risparmio di 100 tonnellate al 2025 con un’altra che ne promette 200 al 2030, magari richiedendo sussidi alle attività di R&D?

Oppure, che senso avrebbe confrontare in una stessa asta centrali nucleari o rinnovabili, quando le prime richiederebbero tempi di realizzazione pari o comunque vicini a quelli dell’intera vita utile degli altri? Il concetto di neutralità tecnologica si scontra anche con il problema degli “obiettivi concorrenti”. Le fonti rinnovabili, oltre al beneficio ambientale, riducono la dipendenza dalle importazioni energetiche. L’auto elettrica riduce l’inquinamento nelle città. Le piccole centrali a biomasse hanno problemi di inquinamento ma possono aiutare a sostenere un tessuto economico locale. Come includere tali aspetti nelle proposte di policies?

Insomma, se si esce dallo slogan si vede che il concetto di neutralità tecnologica è assai elusivo e di difficilissima attuazione a meno di non interpretarlo come un equivalente della richiesta di sussidi a pioggia, ovvero l’esatto contrario di una scelta di efficienza, con la conseguenza di ripartire le risorse in base alla forza di chi le chiede, ovvero un tipico problema della politica debole a fronte di interessi frammentati. In pratica, fare delle scelte sulle tecnologie da supportare è inevitabile. Sbagliato è puntare su una soluzione senza avere una chiara visione delle alternative e dei trade-offs.

Affermare, ad esempio, che con le sole rinnovabili sarà difficile raggiungere i target al 2040 e che quindi andranno esplorate altre soluzioni tecnologiche – quali nucleare, CCS e idrogeno – è difficilmente contestabile, ma poco ha a che fare con la neutralità tecnologica: è, al contrario, la premessa per valutare in modo oggettivo interventi settoriali a favore delle più promettenti fra le tecnologie citate, visto che nessun investimento potrebbe essere effettuato in questi ambiti sulla sola spinta delle dinamiche dei mercati dell’energia e dei diritti di emissione di CO2.

Questo non significa che si debba rinunciare alla concorrenza per selezionare gli investimenti da promuovere. Anche se dai costosissimi incentivi nazionali introdotti alle fine degli anni duemila il quadro è significativamente migliorato, vi sono ancora ampi margini per rendere più efficienti e competitivi i meccanismi di selezione delle tecnologie migliori. Alla base dell’efficienza c’è l’ampiezza del mercato di riferimento. Un mercato esteso a tutto il territorio europeo offrirà maggiori opportunità di investimento e consentirà di ridurre i costi per i consumatori.

Ad esempio, per raggiungere i target di capacità rinnovabile al 2030, anziché ripartire gli obiettivi fra i 27 paesi tramite il cosiddetto “burden sharing”, si potrebbero tenere aste paneuropee tali da consentire una reale concorrenza nell’intero continente, lasciando al mercato il compito di scegliere se è meglio investire in un pannello solare a Malta o in una pala eolica in Lituania. Un modello del genere ridurrebbe i prezzi dell’energia, in quanto sarebbero per definizione selezionati i migliori progetti, e offrirebbe alle amministrazioni incentivi a lavorare per accogliere opere di cui beneficerebbero in termini di riduzione dei prezzi dell’energia. Meccanismi analoghi potrebbero essere estesi all’approvvigionamento di tutte le risorse necessarie al buon funzionamento dei mercati energetici, ad esempio la capacità di riserva necessaria ad evitare i blackout o gli stoccaggi che servono a tenere stabile la rete elettrica quando non c’è vento o sole.

La decarbonizzazione della domanda industriale rappresenta forse la sfida più complessa e affascinante per la transizione energetica. I settori energy intensive, non a caso definiti hard to abate per evidenziare la difficoltà nel ridurre le emissioni con rinnovabili ed elettrificazione, sono spinti a decarbonizzare imponendo un costo alla CO2 emessa. Per ovviare, poi, alla perdita di competitività, sono stati concepiti vari meccanismi protettivi, dalle quote di emissioni gratuite al cosiddetto carbon leakage, al controverso meccanismo del Cbam, ovvero la border carbon tax che rischia di scontrarsi con problemi implementativi quasi insuperabili.

Detto in altri termini, la domanda industriale è stata spinta a decarbonizzare con le cattive, salvo poi compensare a posteriori i costi indotti dalle stesse politiche, con una logica oggettivamente tortuosa. Se le traiettorie di decarbonizzazione al 2040 e al 2050 vanno prese alla lettera, è necessario giocare con un nuovo schema: il sistema industriale europeo dovrebbe contare su meccanismi incentivanti analoghi a quelli applicato all’offerta di energia: pianificazione degli obiettivi di decarbonizzazione delle industrie, concorrenza per il mercato, premi ai progetti europei che riducono più emissioni al minor costo. Ovviamente le aste dovrebbero essere opportunamente disegnate – la modifica del ciclo produttivo di un altoforno non può competere con un intervento minore di efficienza su un processo produttivo più semplice.

Questo meccanismo si presta ad una applicazione abbastanza naturale anche alle filiere critiche, a complemento delle misure abbozzate nel Net Zero Industrial Act. Ad esempio, per rilanciare il settore fotovoltaico, oggi in sofferenza rispetto alla concorrenza cinese, si potrebbero introdurre tender europei, con offtaking garantito da una controparte pubblica, per acquisire pannelli di nuova produzione europea fino a un determinato valore obiettivo, pannelli che poi verrebbero rivenduti su base competitiva agli investitori europei. Peraltro, un meccanismo di questo genere attrarrebbe anche investitori extra-europei – anche cinesi, perché no? come sta avvenendo per le batterie – consentendo un trasferimento tecnologico in direzione inversa rispetto a quanto la Cina ha fatto con l’occidente per decenni.

Non è probabile che, qualunque sia l’esito elettorale, l’obiettivo di coniugare sviluppo economico, sostenibilità ed indipendenza energetica possa essere messo in discussione. La Commissione entrante dovrà concentrarsi sul come fare, ovvero sull’efficacia pratica delle proposte, consapevole del fatto che la transizione non viaggia sulle gambe delle politiche, che possono al massimo accompagnarla, ma sulla capacità di investimento e di innovazione delle imprese. Minimizzare le difficoltà e non gestirle adeguatamente sarebbe altrettanto colpevole che strumentalizzarle nella difesa di uno status quo che vedrebbe il nostro continente fatalmente destinato a competere da posizioni di debolezza a causa della carenza di materie prime e della frammentazione dei nostri mercati.

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