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Ritorno alla terra

Sono di pochi mesi fa le ultime stime della Fao, in base alle quali il numero di persone che soffrono, a vari livelli, la fame nel mondo dovrebbe raggiungere quest’anno il picco storico di 1,02 miliardi, ossia circa un sesto della popolazione mondiale. In questo numero non sono comprese soltanto le persone che soffrono di fame cronica, e che di fame muoiono, ma anche quelle che si nutrono in modo inadeguato, e che per questo deficit di qualità, per così dire, sono più vulnerabili a malattie di vario genere. Bambini che, per colpa di una dieta priva di proteine e vitamine, e povera persino di acqua, soffrono di deficienza di vitamina A e D, o hanno gravi problemi alla vista. Tutto questo avviene soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, certo, o in quelli segnati da conflitti o da forti divisioni di classe. Ma non possiamo pensare che i Paesi occidentali, le nazioni industrializzate, siano immuni da questo problema. La povertà, e la fame, sono piaghe che riguardano anche i Paesi sviluppati. Giusto qualche giorno fa, è stata resa nota una ricerca che ci dice che in Italia sono oltre 3 milioni e mezzo di persone che non hanno una alimentazione adeguata, un dato che, purtroppo, non è molto diverso nel resto d’Europa.
Di fronte a una situazione di questo tipo, credo sia imperativo interrogarsi sulle soluzioni che finora sono state proposte e attuate. Questo Governo ci ha provato, e ha intrapreso una strada che vuole essere alternativa rispetto a quelle percorse finora. Per spiegare in che cosa consista questo percorso nuovo, voglio innanzitutto ricordare quello che ha detto una giovane economista zambese, Dambisa Moyo, a proposito della sua terra, l’Africa: “Gli aiuti occidentali hanno avuto il solo effetto di trasformare una terra già povera in una ancora più povera. Negli ultimi sessanta anni sono stati erogati sussidi per oltre mille miliardi di dollari […]. La situazione non solo è peggiorata, ma è affondata oltre ogni ragionevole limite […]. Gli aiuti finiscono nelle tasche di dittatori spregiudicati e sanguinari invece di essere distribuiti alla popolazione […]. C’è bisogno di investimenti veri, che alimentino attività produttive in loco e correnti di scambio paritarie”.
Il cambio di prospettiva di cui questo Governo si è fatto portavoce in ambito G8 parte proprio da tale presupposto: non è più possibile pensare di risolvere il problema della fame del mondo e di lavarsi la coscienza dando soldi che non si sa dove andranno a finire o che serviranno a tappare i buchi, lasciando intatti i mali che stanno alla base di quel problema.
Durante il primo vertice dei Ministri dell’Agricoltura dei Paesi G8 riuniti ad aprile a Cison di Valmarino, in provincia di Treviso, abbiamo innanzitutto detto a gran voce che il mondo ha diritto ad una agricoltura capace di sfamare tutti i suoi cittadini. Ecco il primo punto dal quale partire, frutto di una semplice equazione: il cibo proviene dalla terra; dunque perché tutti abbiano il cibo, bisogna ripartire dalla terra. E da chi la terra la lavora e di terra vive: gli agricoltori. Nel documento finale di Cison si dice a chiare lettere che bisogna “rafforzare il ruolo delle famiglie agricole e dei piccoli agricoltori e il loro accesso alla terra”. Il settore primario, per troppo tempo, è stato la Cenerentola dell’economia, nell’assurda convinzione che la globalizzazione e il mercato avrebbero risolto ogni problema. La crisi che ha colpito le economie mondiali ha dimostrato che non è così.
Ma lo sviluppo rurale e il potenziamento dell’agricoltura, nei Paesi in via di sviluppo come nelle economie avanzate, non possono prescindere da un principio che abbiamo ribadito proprio nel vertice dei Ministri dell’agricoltura G8: il cibo non può, in nessun caso, essere oggetto di speculazione finanziaria. È forse questo il punto che dà il senso politico della proposta italiana. I prodotti della terra non sono delle commodities su cui sia possibile speculare. Eppure finora il mais, il grano, la carne, il riso o la frutta hanno seguito dinamiche speculative che, sotto la regia accorta di piccoli gruppi di potere e di pressione, ne hanno fatto lievitare o abbassare i prezzi a proprio piacimento.
Contro questi meccanismi perversi, che ci allontanano dalla realtà delle cose, complicando ad arte i passaggi di mano e con essi il linguaggio, quello che proponiamo noi, e che è alla base del documento di Cison e di quello dell’Aquila che quest’ultimo ha recepito, è un “ritorno alla terra”. Per noi, questo ritorno è anche ritorno all’identità, alla qualità e alla prossimità. Identità significa sapere da dove provengo e dove voglio andare; qualità è l’esercizio di un diritto che deve appartenere a tutti e non solo ai ricchi; prossimità significa affidarsi e fidarsi di una rete che è in grado di sostenermi e di darmi il meglio a prezzi equi.
Faccio parte di un movimento politico, la Lega, che da quando è nato lotta per il riconoscimento, in chiave politica, di questi tre capisaldi, che sono il cardine su cui si fonda il senso economico dell’agricoltura: un’azienda agricola deve poter sfamare l’agricoltore, essere in grado di modificare il territorio salvaguardandone le ricchezze e presentarsi al mercato in modo da garantire nel tempo e con risorse proprie il futuro.
Siamo convinti che, per troppo tempo il tema agricolo sia stato affrontato in modo distratto e residuale. Contro questa sciatteria, figlia della fede cieca nell’economia, e nell’agricoltura, globalizzate – quella dei sussidi e dei WTO per intenderci – noi proponiamo oggi il modello italiano. Un modello che, appunto, si fonda sull’identità dei territori e dei prodotti, sulla qualità dei frutti della terra e sul rapporto, oggi finalmente messo nell’agenda della politica, tra aree urbane e lavoro agricolo.
Per poter raccontare finalmente la rinascita di un settore, quello dell’agricoltura, che è il fulcro della vita di tutti.
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