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Che clima sarà

La conferenza di Copenhagen comincerà fra pochi giorni con la consapevolezza che, quale che sarà l’intesa che si firmerà alla fine del vertice, sarà certamente un accordo di portata storica.
Storico perché sarà il primo accordo finalmente “globale” sul clima.
Un accordo del genere non è necessariamente il miglior accordo, ma in questo caso ha ragione il presidente Obama: il meglio non sia nemico del bene. E non avrebbe senso denigrare un accordo possibile preferendogli un accordo impossibile. Il rischio, anche nelle questioni ambientali, è stato, ed è, il radicalismo demagogico di chi preferisce il fallimento ad un accordo imperfetto.
E si tratta di un rischio reale. Infatti, recentemente, dopo l’annuncio a Singapore della strategia dei due tempi – prima l’intesa politica, poi il trattato vincolante – in molti hanno gridato alla debacle preventiva, come se si fosse celebrato il requiem della lotta ai cambiamenti climatici.   
Ma gli addetti ai lavori, e fra questi molti di quelli che hanno denunciato la caporetto della battaglia per il clima, sapevano e sanno perfettamente che una intesa politica che impegni tutti i grandi emettitori di Co2 della terra da definire a breve, mesi e non anni, relativa ai target di emissioni, alla quota dei tagli, agli impegni finanziari per sostenere i Paesi in via di sviluppo non solo è l’unico risultato possibile a Copenhagen, ma è un risultato assolutamente straordinario.
Perché si partiva da zero.
Perché il Protocollo di Kyoto, documento di enorme valore culturale, pietra miliare della consapevolezza collettiva del problema dei cambiamenti climatici, in quanto strumento operativo per limitare le emissioni di CO2 nel pianeta non ha avuto alcun effetto. Le emissioni sono aumentate, stanno aumentando, nonostante i lodevoli impegni europei, in maniera ragguardevole. E ciò accade perché Kyoto impegna tutti fuorché quelli che dovrebbe impegnare: i più grandi emettitori di CO2 del passato e del futuro: Usa, India, Cina. È  come se si fosse fatto un protocollo per salvaguardare l’ecosistema dell’Artico accettando che non lo sottoscrivessero o non assumessero impegni Russia, Canada, Norvegia e Groenlandia.
Per questo credo che nessuno possa veramente dirsi sorpreso dalle constatazioni arrivate dal vertice Apec. Il presidente Usa e quello cinese hanno detto ciò che tutti sapevano. Oggi non ci sono le condizioni che consentirebbero ai due più grandi “surriscaldatori” del pianeta di assumere responsabilità internazionali per il clima.
Piuttosto, quello che dobbiamo sottolineare – e come governo italiano abbiamo sostenuto questa tesi lungo tutto il processo negoziale – è che solo dentro un accordo politico condiviso da tutti è possibile definire un quadro vincolante degli impegni che poi i singoli Paesi dovranno sostenere.
La scelta di Stati Uniti e Cina sappiamo essere frutto della situazione interna dei due Paesi; il presidente Obama vuole evitare, come accadde per il presidente Clinton con il Protocollo di Kyoto, di assumersi impegni vincolanti senza poter contare sul sostegno del Congresso. La Cina, che pure è il Paese che più sta investendo in tecnologie rinnovabili, ha sempre manifestato le sue perplessità rispetto all’adozione di impegni vincolanti. Ma tutti convengono sulla necessità di una intesa politica sul contenimento delle emissioni e sulla lotta ai cambiamenti climatici.
Oggi, quello che ieri era un risultato inimmaginabile è un impegno consolidato. Tutti i Paesi più industrializzati e quelli emergenti, che sedevano al grande tavolo dell’Aquila, hanno concordato sull’impegno di contenere l’incremento della temperatura mondiale entro 2 gradi da qui al 2050, raccogliendo in pratica l’invito (e la diagnosi) dell’Ipcc. Questo impegno generale assunto in una sede informale come il G8 allargato ora dovrà essere ribadito in una sede formale, la conferenza Onu di Copenhagen e quindi da questo impegno formale dovranno discendere target vincolanti. È un cammino relativamente piccolo (anche se certamente non facile) quello da compiere rispetto al percorso che è stato già fatto.
Un percorso nel quale l’Italia ha giocato un ruolo importante nella sua veste di presidente di turno del G8, favorendo, prima con la riunione dei ministri dell’Ambiente di Siracusa, poi col vertice dei Capi di Stato e di governo dell’Aquila, l’avvicinamento delle posizioni e proponendo soluzioni in grado di agevolare l’intesa. Non è un caso che il nodo della disseminazione delle tecnologie a basso contenuto di carbonio che proprio da Siracusa lanciammo sette mesi fa, sia diventato uno dei pilastri su cui si sta costruendo l’intesa.
Una intesa che, vale la pena ribadirlo, non è, né potrebbe essere, un accordo tout court sul clima. A Copenhagen non si discuterà di meteorologia. Il vertice Onu ha l’obiettivo altissimo (e quindi di grande difficoltà) di fornire al mondo un nuovo e diverso modello di sviluppo globale. Perché è evidente che se i due terzi degli indiani (che oggi non ce l’hanno) hanno diritto alla corrente elettrica in casa, se un miliardo e 300 milioni di cinesi hanno il diritto di avere condizioni di vita assimilabili alle nostre, questo implicherà la richiesta di un surplus di energia straordinario. Il cuore di Copenhagen è fare in modo che raddoppiare o triplicare la produzione di energia al mondo non comporti parallelamente una moltiplicazione delle emissioni, il che sarebbe drammatico per il clima e per le condizioni di vita sulla terra. Ciò significa che poiché è impensabile (e impossibile) impedire al secondo e terzo mondo di crescere, dobbiamo fornire a quella parte della terra, che tra l’altro ha la più alta densità  di abitanti del pianeta, gli strumenti per uno sviluppo ecosostenibile. Questo è il nocciolo duro delle resistenze dei Paesi emergenti ad una intesa che preveda solo tagli di emissioni e non proporzionali e cospicue misure economico-finanziarie per la diffusione di tecnologie pulite.
Solo se centreremo questo obiettivo sarà possibile raggiungere un accordo efficace per le sorti del clima.
In questo ambito, complesso, che conduce verso l’intesa,    l’Europa ha sostenuto un grande sforzo, impegnandosi in maniera autonoma ad un taglio delle emissioni del 20% e in prospettiva del 30%, ma una assunzione di responsabilità così forte ha una logica compiuta solo a fronte di una assunzione di responsabilità corrispondente degli altri Paesi, cominciando da quelli, come gli Stati Uniti, che con lo Waxman Bill approvato dal Congresso (e in discussione al Senato) hanno sì preso impegni importanti ma, ricordiamolo, sempre inferiori a quelli che noi abbiamo preso come Europa. L’interrogativo che allora dobbiamo porci è se l’aver assunto con troppo anticipo impegni vincolanti non sia stata una fuga in avanti, che  ha cristallizzato la nostra posizione nel dibattito negoziale internazionale. Ci siamo avvitati nella discussione interna sulla ripartizione delle quote tra Paesi membri, perdendo di vista quella che doveva rimanere la questione principale, e cioè la natura globale di un accordo sul clima.
Dobbiamo tornare a questa prospettiva. E va evitato il ripetersi di una situazione assimilabile allo scenario di Kyoto, quando alcuni Paesi (come noi europei) assunsero impegni legalmente vincolanti e altri impegni solo su un piano politico.
Ma credo che ormai l’entità della posta in gioco sia chiara, com’è chiaro che solo con un impegno concreto di tutti sarà possibile raggiungere risultati.
Copenhagen ormai è alle porte. Credo ci possa essere spazio per l’ottimismo.
                                                     
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