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Racconto di un Mediterraneo diverso

Dalle alture di Algeri, dove imponente si erge la residenza di Stato nella quale vengono ospitate le delegazioni politiche straniere, denominata El Mithak, che vuol dire Carta perché lì venne firmata la Costituzione algerina, lo sguardo abbraccia la splendida baia nella quale si perdono all’alba e al tramonto i sogni mediterranei di chi è capace di immergersi nelle storie che hanno segnato quel luminoso spazio. Ci sono, infatti, l’Europa e l’Africa nello specchio di mare che racchiude sugge­stioni indescrivibili, sulla cui superficie è possibile immaginare la remota narrazione di civiltà che si sono incrociate da quelle parti, combattendosi e pacificandosi, odiandosi ed amandosi, cercando sempre e comunque di comprendersi.

Da El Mithak la mente si spinge ai confini settentrionali del Mediterraneo e sorvolandoli è in grado di vedere ciò che non c’è: il tentativo di un abbraccio tra due sponde divise da acque prodigiose dove presero forma nella notte dei tempi la poesia e la musica, la religiosità di popoli scandita dai segni di destini ancestrali e le avventure dello spirito, numerosi nuovi inizi e la filosofia grandiosa che avrebbe superato i millenni per situarsi in mezzo a noi con la sua intatta forza che ha nell’occidente le sublimi speculazioni d’oriente ed in questo la razionalità di quello. E sembra proprio nel mare davanti ad Algeri che da un mo­mento all’altro prendano forma figure che hanno animato il Mediterraneo facendone il centro di tutto ciò che deve restare a testimonianza di una civiltà che nessuno può cancellare. Viaggiando da est a ovest e da nord a sud in questo mare aper­to alle profanazioni degli “infedeli”, per i quali è soltanto un suggestivo luogo nel quale perdersi, è tutt’altro che infrequente imbattersi nei numerosi muri che lo deturpano. Muri politici, materiali, culturali, religiosi. E penso che neppure Ulisse con il suo ardimento ed il suo ingegno potrebbe abbatterli. Sono muri che impediscono all’Europa e all’Africa di congiungersi nel mare della concordia sperimentando una nuova fecondità. Invece dominano, tra un muro e l’altro, la diffidenza, il ran­core, l’incomprensione. Nelle dolcissime città del Maghreb incontro sorrisi fiduciosi e gentili; gli occhi dei bambini e delle donne sono luminosi come il sole che li inonda; i gesti sono eleganti come le parole che mi vengono rivolte.

E al­lora, che cosa rende problematico l’incontro al di fuori delle strade della cortesia? è la politica, dell’una e dell’altra parte, che non si è formata sulla comprensione e sul dialogo, ma sull’interesse brutale a difendere, dall’una e dall’altra parte, interessi contrapposti che non potranno mai essere composti prescindendo dalla consapevolezza che il Mediterraneo è una “ragione comune” sulla quale edificare una comunità di circa 800 milioni di uomini e di donne, che potrebbe costituire una potenza dalle possibilità neppure immaginabili, la cui forza dovrebbe dispiegarsi nella costruzione di una pace duratura nel bacino dove i muri sono ancora in piedi purtroppo. Se dopo il Processo di Barcellona anche l’Unione per il Mediterraneo dovesse perdere lo slancio iniziale, come molti elementi ci fanno temere, immaginare di incominciare daccapo a mettere insieme un’operazione politica tra le due sponde è franca­mente un’impresa di Sisifo.

La stessa Assemblea parlamentare euro-mediterranea, la cui presidenza quest’anno è esercitata dall’Italia, è lontana dal decollare. Le sue riunioni, sporadiche ed inconcludenti, dal 2003, anno di nascita dell’organismo, non hanno fatto fare un solo passo in avanti alla politica medi­terranea bloccata non soltanto dal conflitto israelo-palestinese, ma anche da molti altri conflitti latenti, economici e politici, tra numerosi Stati che dovrebbero avere quantomeno il buon gusto di mettere tra parentesi le contrapposizioni per puntare alla ricerca dell’interesse comune. Ma ciò non sembra possibile anche per il disinteresse dei governi che non ritengono degna di considerazione l’iniziativa dei Parlamenti come quelle più late che germinano nel campo della cultura. E quando si dedi­cano ad incentivare rapporti economici, non lo fanno in nome e per conto dei Paesi e dei popoli, ma soltanto per soddisfare le legittime ambizioni delle imprese le quali considerano l’Africa, o, per quel che ci riguarda, i suoi territori setten­trionali, come occasioni di sviluppo e non certo di cooperazione.

Per quan­to le piccole e medie imprese italiane, non meno che spagnole e francesi, ma anche tedesche, abbiano visto nei Paesi mediterranei africani condizioni di intervento soddisfacenti, giustamente lamentano che i go­verni che dovrebbero sostenerle, spesso, firmati gli accordi, se ne disinteressano. Ed osservano, gli operatori economici, che laddove essi non possono arrivare, dovrebbero farlo le autorità preposte a creare le condizioni di agibilità che sono soprattutto culturali e civili. Ecco il vero problema, chissà perché è rimasto sempre sullo sfondo dei rapporti euro-africani. Se si intende davvero pervenire alla costruzione di stretti rapporti tra le due sponde, dovrebbe essere privilegiato il dialogo interculturale.

La conoscenza è il fondamento di qualsiasi sviluppo economi­co e politico. Prescinderne significa inibirsi la possibilità della penetrazione in un mondo che talvolta appare ostile soltanto perché non lo si comprende o, peggio, lo si vorrebbe come il nostro inducendo milioni di esseri umani che vivono precaria-mente da quelle parti a riconoscere il nostro mondo, il mondo occidentale, come una specie di paradiso in terra, mentre di­venta, giorno dopo giorno, luogo di scontro tra poveri per non aver saputo, i Paesi europei, allocare risorse tali da tenere legate al proprio territorio popolazioni che potrebbero trovare dentro casa civili e soddisfacenti condizioni di vita. Dambisa Moyo, scrittrice ed economista nata e cresciuta nello Zambia, con un passato alla Banca mondiale e alla Goldman Sachs, ha scritto un libro esplosivo, La carità che uccide (Rizzoli), nel quale sot­tolinea come gli aiuti dell’occidente al Terzo mondo lo stanno devastando. L’Africa deve uscire dalla perenne adolescenza alla quale sembra essere condannata dai “caritatevoli” occidentali: lo ha capito la Cina che non ha un passato coloniale da farsi perdonare. E perfino nei Paesi rivieraschi del Mediterraneo come l’Algeria, sta attuando un programma di interventi tesi allo sviluppo di una nazione che soltanto un mese fa ha ascol­tato il presidente Bouteflika annunciare un programma quin­quennale di circa trecento miliardi di dollari per modernizzare la nazione. Gli europei-mediterranei poco o nulla concorreran­no all’operazione, se si escludono timidi ma encomiabili tenta­tivi delle piccole e medie imprese italiane. Il resto è sonno. Ma dal sonno ci si può ridestare. Nel solo modo possibile, oltre a quello indicato, di rinunciare alla carità e gettarsi a corpo mor­to nello sviluppo: organizzare gli scambi culturali.

Quando dal Maghreb ci chiedono la liberalizzazione dei visti, impossibile nelle forme dai nostri dirimpettai immaginata, bisognerebbe rispondere che è necessario innanzitutto creare i requisiti e cioè avvicinare il mondo mediterraneo, tutto intero, ben oltre i muri, a condividere uno stesso destino che è sì culturale, ma non può, in prospettiva, che diventare politico. Il Mediterra­neo è un universo di inquietudini. Pacificarlo non sarà facile. Ma correggendo la rotta fin qui seguita, forse è possibile, sia pure in un domani non molto vicino. Bisogna crederci, natu­ralmente. Ed atteggiarsi di conseguenza nei confronti di coloro che con noi condividono un sogno antico più volte spezzatosi. Pochi mesi fa, nella città romana di Jerash, in Giordania, mi sembrò di veder passare tra le colonne ed i templi l’ombra di Adriano che la costruì. La Villa di Tivoli, abitata dallo stesso imperatore, mi apparve straordinariamente vicina. Mentre calava il sole, sulla strada verso Amman, incontrai pastori che conducevano greggi come mi capitava di incontrarne nel mio Mezzogiorno quando ero ragazzo. Soltanto nella Moschea di Hussein mi sentii, a sera, fuori posto. Eppure il pensiero che rivolsi al mio Dio non mi fece tremare e trovai perfino il co­raggio di farmi un segno di croce. Perché il Mediterraneo ha dimenticato la pratica della tolleranza?

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