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Russia, la rivoluzione di neve

washington
Prima del 4 dicembre, il giorno delle elezioni alla Duma, la più grossa sfida di Vladimir Putin era la Cina. Il problema era di riuscire a concludere il mega contratto per il gas con il Paese più popolato del mondo. I cinesi hanno bisogno di energia, i russi hanno gas a sufficienza. E da questi semplici punti nascono negoziati, che durano da più di 5 anni. Difficilissimi, che girano sempre attorno a un punto. “Volete il gas?”. “Sì”, “Al prezzo giusto di 400 dollari per 1000 metri cubi?”, “Sì, al prezzo giusto di 250 dollari”. Sì, perché i cinesi difficilmente dicono di no, ma strappare quel contratto che vale più di 500 miliardi di dollari che collegherebbe i due Paesi con due cordoni ombelicali (i due gasdotti) per almeno 30 anni non è stato facile.
 
Le visite di Putin a Pechino, le visite di Hu Jintao a Mosca, tutte a vuoto. Quindi, questo contratto è diventato un punto d’orgoglio dell’attuale premier russo, una mission impossible che doveva concludersi non alla fine del film, ma con lo scadere del mandato del premier. Questo contratto serviva per far cassa, ma soprattutto per far vedere all’Europa che il gas russo può andare anche in direzione opposta, appunto in Cina, e con la chiusura delle centrali nucleari diventa un prodotto molto desiderabile, malgrado l’abbondanza di shale gas, dal prezzo alto. “Inutile che le compagnie europee rinegozino i contratti di lungo periodo stipulati con Gazprom, quando la Cina compra gas per almeno 30 anni”, si poteva pensare.
 
Ma il primo colpo lo ha dato il presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhamedov, che a fine novembre ha firmato un contratto con la Cina per la costruzione della terza linea del gasdotto Turkmenistan-Cina. Questo accordo permette di portare fino a 65 miliardi di mc all’anno (la stessa quantità di gas trattata da Mosca e Pechino), a prezzi bassi e mette in maggiore difficoltà i negoziati russi con la Cina.
Il secondo colpo per Putin è arrivato dai risultati delle elezioni alla Duma, il Parlamento russo. Russia Unita ha perso il 15% rispetto alle elezioni precedenti e con grande fatica si è aggiudicata la maggioranza assoluta, con qualche irregolarità, come dicono i russi. Gli exit poll davano il partito di Dmitri Medvedev e Vladimir Putin al 48%. Il risultato finale è stato di poco differente. C’è chi urla al grande imbroglio, quasi la metà dei voti irregolari, e chi invece è più cauto, con una incidenza di poche percentuali. Probabilmente, Russia Unita non avrebbe avuto la maggioranza assoluta, ma comunque sarebbe rimasto il partito dominante.
 
Paradossalmente, il risultato conviene a Putin più che a Medvedev. Con la maggioranza costituzionale (più dei 2/3), la Duma avrebbe potuto fare impeachment al presidente, e Putin, che ha lasciato il posto di presidente a Medvedev nel 2008, aveva una leva in più (nel caso di un eventuale disaccordo, avrebbe potuto chiedere alla Duma di fare il suo lavoro “costituzionale”). Adesso, invece, Russia Unita guidata da Medvedev non potrà fare impeachment al presidente (che probabilmente il 4 marzo sarà Putin), non avendo i voti sufficienti. Quindi Putin in un certo senso ha rafforzato il suo potere futuro. Questo ragionamento machiavellico si può estendere oltre: Putin aveva promesso il posto di primo ministro a Medvedev, a seconda dei risultati raggiunti alle elezioni. E anche se tutti e due hanno dichiarato che sono stati “buoni”, il nervosismo di Putin è stato evidente. Quindi, lui può essere libero di staccarsi dal partito (dove Medvedev è leader, ma Putin non è nemmeno membro), associato alla corruzione (anche se stranamente sia Medvedev sia Putin lottano contro la corruzione, che colpisce tutti i partiti senza eccezioni) e, volendo, anche da Medvedev stesso.
 
Proviamo a capire perché il partito Russia Unita ha avuto un crollo notevole. Prima di tutto, la crisi mondiale e l’insicurezza nel futuro. Basti ricordare che tutti i Paesi del cosiddetto Pigs, e non solo loro, hanno perso i loro governi. Malgrado il reddito pro-capite in Russia sia aumentato di 2,4 volte dall’inizio del secolo e le pensioni di 3,3 volte, il brand Russia Unita inizia a scricchiolare ed entra probabilmente nella sua fase di declino. Anche per questo Putin ha fiutato questo cambiamento e ha lanciato il Fronte popolare. Inoltre Russia Unita, sicura di vincere, ha dedicato poco spazio ai social network e ai nuovi media. Non ha partecipato ai dibattiti dei partiti (erano su tutti i principali canali), non ha fatto promesse stratosferiche. Ha persino tolto il voto “contro tutti”. È una particolarità del sistema elettorale russo, che fino alle scorse elezioni prevedeva una casella speciale chiamata proprio “voto contro tutti”, in cui si esprimeva il voto di protesta. Così questi voti, di solito distribuiti tra i vincitori in base alle loro percentuali, sono andati ai partiti concorrenti, in primis comunisti e Russia giusta. Non a caso, per “democratizzare” le elezioni, Medvedev ha detto di ritornare a questa casella.
 
Vladimir Putin, comunque, ha ricevuto una lezione da questa “vittoria”. Il partito Russia Unita ha preso la metà dei votanti, ma il 40%, i più indifferenti, non sono andati a votare. Qualcuno sostiene che tra questi ci sono più oppositori che sostenitori di Putin. E adesso, svegliati dai tam tam di Internet, iniziano a muoversi. Ora, però, Putin è più preferibile di altri candidati già pronti a gareggiare, il comunista Zyuganov e il nazionalista Zhirinovski. Ma se l’opposizione trovasse un leader unico, condiviso da tutti i partiti e dai social network, la strada per la poltrona presidenziale per Putin diventerebbe molto più difficile. Se invece ci saranno tanti candidati dall’altra parte, ognuno occupato a tirare la coperta su di sé fino a strapparla, la vittoria al primo turno per lui sarà garantita. Se così fosse, l’incubo delle elezioni del 4 dicembre sarebbe facilmente dimenticato, come un inciampo senza ferite. Ma anche Putin dovrà cambiare strategia e rinnovare il suo brand. Per quanto tempo resterà, lo dirà la storia.
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