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Non mi piace la parola “fondamentalismo” o “radicalismo”. Sono eufemismi. Il vero problema è il ritorno dell’islam. In teoria, la coesistenza tra islam e democrazia è forse possibile, ma non nei nostri tempi comunque. Lo spirito religioso va domato prima di poter offrire una base per la convivenza democratica. I regimi egiziano, tunisino e libico travolti nel 2011 perseguivano tutti, in modi e gradazioni diverse, lo scopo di tenere sotto controllo l’islamismo. Le cose ora stanno cambiando. Vediamo come.
 
In Libia è difficile credere che continui l’unità territoriale tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. La guerra stessa è stata condotta in un modo che avrà conseguenze politiche, rafforzando le tendenze centrifughe. Ad un Gheddafi debolissimo si è infatti opposta una coalizione occidentale che ha fatto ricorso limitato e tattico alla forza, mentre sul terreno i ribelli sembravano più impegnati a sparare in aria che a fare altro. In questa condizione di debolezza da una parte e dall’altra, la guerra si è trascinata e il controllo della situazione è passato a gruppi specifici di ribelli che avevano già una precedente coesione. In altre parole, non si è formata nel corso della guerra una solidarietà più grande e i tre gruppi principali (ribelli di Misurata, ex-alqaedisti volontari in Afghanistan e ribelli delle montagne del sud-ovest) hanno mantenuto la loro struttura iniziale.
 
L’iniziativa bellica tesa a rovesciare Gheddafi è stata, come è noto, francese e inglese. Per Parigi e Londra si è trattato di dimostrare la propria capacità bellica indipendente, oltre che – dettaglio non da poco – di elevare lo status dei propri caccia Rafale ed Eurofighter testandoli in combattimento, impiegandoli tatticamente, preceduti dal lancio dei missili da crociera, poi dall’appoggio logistico ed elettronico americano. L’America e l’Italia erano molto più riluttanti. Washington e Roma sono entrate in guerra con la stessa idea, ovvero che la no fly zone non sarebbe bastata. Francesi e inglesi parlavano di guerra rapida e indolore. Invece ci sono voluti molti bombardamenti.
 
In Siria non vedo questa doppia sequenza di intervento anglo-francese e/o italo-americano. Il regime siriano ha una base non molto larga, costituita dalla minoranza alawita, appoggiata al momento dai drusi e con un forte ruolo dei cristiani. Le Forze armate di Damasco sono dominate da una coalizione alawita-drusa-ismailita. In pratica, la base del regime, contro cui si scaglia un 70-75% di popolazione sunnita stanca della repressione e del clientelismo, non supera il 25% del totale. È comunque sufficiente ad impedire una liquefazione rapida come quella di Gheddafi: gli alawiti sanno che perderanno tutto se dovesse cadere il regime. La situazione volge verso la guerra civile, perché c’è una fortissima pressione esterna, manovrata dalle finanze delle potenze regionali sunnite, Arabia Saudita e Paesi del Golfo in primo luogo, le cui catene televisive stanno facendo una forte propaganda in questo senso. Stanno tentando la “mossa del cavallo”, ovvero la rottura del “crescente sciita” Iran-Iraq-Siria, una mezzaluna dietro cui si ripara Hezbollah in Libano. La Turchia è emersa come capofila di questa operazione, che non è per la democrazia, ma per la vittoria della strategia sunnita in Siria e di conseguenza in Libano.
 
Ciò ci porta alla questione del cosiddetto “modello turco”. Questo modello, di cui molti parlano a sproposito, appartiene ad una Turchia che non esiste più, quella laica di Ataturk, dove l’islam politico era represso duramente. Oggi la democrazia è semplicemente il veicolo che gli islamisti dell’Akp hanno usato per salire al potere, ma non rappresenta la loro destinazione finale. Da molti piccoli segnali, è possibile vedere che il Paese si sta islamizzando e la democrazia si sta indebolendo. Il presidente Gul, che va in giro nel mondo a parlare di modello turco, ha sposato sua moglie quando questa aveva 14 anni (lui 21) e per anni ha vissuto e lavorato in Arabia Saudita. Nei tavolini fuori dai bar di Istanbul è già proibito servire l’alcool. Si guardi a come i leader dell’Akp trattano le donne e le donne di cui si circondano. Sono tutti segnali chiari, basta che li si voglia vedere. Ma l’Europa non li vede, e continua ad illudersi che facendo entrare nell’Unione la Turchia, questa si laicizzi. È uno di quegli schemi astratti, apparentemente molto attraenti, che piacciono tanto agli europei, ma che non hanno alcuna base reale (come l’euro!). Non solo, Bruxelles ha contribuito decisamente a indebolire le basi democratiche della Turchia con la sua pressione sui militari, trattati alla stregua di golpisti sudamericani. Pressione utilizzata dall’Akp per eliminare un ostacolo interno all’obiettivo di una Turchia islamizzata, che per inciso in quanto tale è destinata a rompersi, con la minoranza alewi (15 milioni) che non potrà tollerare un regime sunnita Akp.
 
Tra Marocco e Afghanistan vi è insomma una vasta area da cui gli Stati Uniti si stanno ritirando, consapevoli che il modello americano qui non funziona. Per gli Usa ora il focus è sulla parte più produttiva dell’Asia marittima, dal Giappone al Vietnam, dove tra l’altro l’America ha il vantaggio di porsi in posizione attendista e passiva di fronte ad una Cina assertiva, che spinge le potenze regionali ad avvicinarsi a Washington. Fuori da questo arco di crisi, resteranno strategici solo il Kazakistan (tra Russia e Cina) e l’Uzbekistan sulla via della Cina verso il Golfo Persico. Quanto all’Afghanistan, l’orientamento ormai prevalente è abbandonarlo dopo il 2014 al suo destino di guerra civile, probabilmente con India ed Iran a contrastare le ambizioni egemoniche pakistane esercitate attraverso i talebani. In Somalia, è in corso un intervento di Etiopia e Kenya con l’appoggio logistico e i droni americani, ma la situazione è ugualmente disperata. A meno che non si voglia mantenere in piedi un’unità territoriale artificiale, sarà meglio dare spazio a realtà vitali come il Puntland e il Somaliland, secondo l’idea di Parag Khanna per cui talvolta ci sono Stati troppo grandi e frammentati per essere sovrani in senso classico occidentale.
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