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Vi spiego il vero interesse della Cina in Medio Oriente

Dietro l’attivismo cinese in Medio Oriente “non ci sono motivi politici, ma economici”. Francesco Sisci, editorialista del Sole24ore ha spiegato a Formiche.net su quali basi nasca l’interesse cinese per la regione.

Nei giorni scorsi la contemporanea presenza nella Repubblica popolare cinese sia del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sia del presidente palestinese, Mahmoud Abbas, la disponibilità della dirigenza cinese a organizzare un incontro tra i due leader e le frasi sulla volontà di giovare un ruolo maggiore nella regione avevano fatto ipotizzare un tentativo della Cina di affermarsi come mediatore nel conflitto israelo-palestinese.

In realtà, ha spiegato Sisci, più che a alla politica bisogna guardare alla dipendenza cinese dalle importazioni dal Medio Oriente e al riposizionamento statunitense che ha fatto dell’Asia il nuovo fulcro della propria politica estera ed economia a scapito del tradizionale ruolo nel Mediterraneo.

Con il segretario di Stato, John Kerry, la politica estera di Washington sembra tuttavia guardare nuovamente al Medio Oriente. Esiste il rischio che i due interessi si scontrino?

In realtà non ci sono interventi concreti in Siria, in Libia, in Iraq. È più un’intenzione dello stesso Kerry. Al contrario nella regione dell’Asia e del Pacifico assistiamo a un trasferimento di mezzi e risorse.

In futuro sarà possibile ipotizzare per la Cina un ruolo politico in Medio Oriente, magari prendendo il posto occupato dalla Russia che si è allontanata dagli Stati arabi per le posizioni sul conflitto siriano?

Il ruolo cinese è ancora tutto da definire. Non vuole essere coinvolta in una situazione che non capisce a fondo. È estremamente difficile che possa avere un ruolo alto nella questione israelo-palestinese. Ci sono almeno due paradossi. Il primo è il sostegno storico ai palestinesi, che va contro i suoi stessi interessi nazionali. Ne sostiene la causa pur continuando l’occupazione del Tibet. Due vicende che possono essere accostate benché Pechino dica siano differenti. Si tratta di un’eredità storica dei tempi della Guerra Fredda, che rimane sullo sfondo. Il secondo paradosso è pratico: la Cina importa petrolio dai Paesi arabi, anzi mussulmani. Allo stesso tempo va d’accordo con Israele, con cui sta sviluppando una quasi alleanza militare. Se nel breve periodo sarà importante il rapporto con i fornitori di petrolio a medio termine i cinese vogliono acquisire tecnologie, in particolare per il risparmio energetico e lo sfruttamento dello shale gas (il metano estratto con la fratturazione profonda delle rocce, ndr).

Come si concilia questo rapporto con Israele con le relazioni che la Cina continua a intrattenere con l’Iran o Hamas?

Un punto a favore della Cina è non avere nemici nella regione. È la diplomazia. Il nemico del mio amico non deve essere necessariamente mio nemico. Negli ultimi due o tre anni abbiamo assistito allo sviluppo delle relazioni con l’Arabia Saudita, rivale dell’Iran con cui tuttavia continua ad avere rapporti.

Ha parlato della quasi alleanza militare con Israele. Come è vista dagli Stati Uniti, anche considerata l’attenzione verso la spesa per la Difesa cinese e gli sviluppi dell’Esercito popolare di liberazione?

Guardano con attenzione a quanto accade. Esistono dei veti per quanto riguarda il trasferimento di tecnologia militare. Ma sono possibili scambi di tecnologia e informazioni anche in altri settori.

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