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Di chi si fida Putin in Ucraina?

Più delle immagini che hanno girato il mondo di quei Berkut che sono saliti sul palco di un teatro di Leopoli per chiedere in ginocchio perdono ai concittadini delle loro azioni contro i manifestanti, e più del tweet del ministro degli Interni ad interim Arsen Avakov che comunicava la firma dell’ordine 144, per lo scioglimento delle unità speciali di polizia (i Berkut, appunto), volto della repressione nelle rivolte; più dei nomi che usciranno dalla riunione dell’assemblea popolare fissata per stasera alle 18 in piazza Indipendenza e che daranno luce al nuovo esecutivo; più dei 20 feriti in Crimea, negli scontri tra i tatari (la minoranza etnica, che manifestava contro la secessione) e i filorussi; più dello stato di allerta lanciato da Putin alle truppe di confine, e del test che si terrà a partire da venerdì per verificare la reattività all’entrare in combattimento delle forze dislocate nella Russia occidentale (l’esercitazione coinvolgerà 150 mila soldati, 880 carri armati, 90 unità dell’aviazione e 80 della marina); più della caccia al presidente, che è ancora un fantasma (ci sarebbero stati avvistamenti in ogni angolo del Paese, sebbene è logico pensare che si sia rifugiato proprio in Crimea, probabilmente nella base russa di Sebastopoli); insomma più di tutto, la notizia che sorprende in questi giorni sulla questione Ucraina, arriva dalle indiscrezioni emerse sul New York Times, secondo cui sarebbe stato proprio Putin a suggerire a Yanucovich che era giunto il momento di lasciare il potere.

La frase tombale sull’ex presidente l’ha scritta il capo della commissione Esteri alla Duma, Alexey Pushkov: «Questa è una fine davvero patetica per un leader». Messaggio secco, ermetico, definitivo. Ma allora di chi si fida Putin in Ucraina? Di nessuno, se non di se stesso, dovrebbe essere la risposta.

L’appellativo che accompagna a Mosca Yanucovich è “traditore”: Putin, al di là della facile retorica di questi giorni, non ha mai avuto grossa intimità con l’ex presidente. Dal 2004, quando la Rivoluzione Arancione rovesciò le elezioni che avevano portato alla vittoria di Yanucovich grazie ai brogli elettorali – con l’aiuto russo – il rapporto si è andato logorando. Considerato molle e poco affidabile, anche per rapporti con diversi oligarchi non proprio intimi del Cremlino, molti dei quali cacciati (già nel 2000) dalla politica di Mosca hanno poi trovato terreno fertile in Ucraina – un paio di nomi su tutti, a partire dall’ambiguo finanziere, al 47° posto dei più ricchi di Forbes e proprietario della squadra di calcio Shakhtar Donetsk, Rinat Akhmetov (vicino all’ex presidente super filooccidentale Yushenko; che però sembra aver finanziato anche Yanucovich alle ultime elezioni), per continuare con il più dichiaratamente occidentalista Victor Pinchuk, o Sergei Kurchenko re del petrolio dell’Ucraina, o Petro Poroshenko il boss del cioccolato (ex ministro sia con Yushenko che con Yanucovich, il capo della Roshen è uno dei chief delle proteste di Maidan). E d’altronde Yanucovich era stato colui che aveva portato l’Ucraina vicina all’UE; con lui si erano avviati i colloqui, solo che aveva trovato difficoltà a recepire subito un prestito per tirare avanti e rifinanziare il debito, senza riformare la Costituzione e limitare il suo potere.

L’Ucraina è un paese diviso culturalmente (e linguisticamente), debole, povero: la richiesta di aiuti al Fondo monetario internazionale arrivata ufficialmente oggi è una necessità vitale. Servono 35 miliardi di dollari per evitare il default, la Russia che ne aveva promessi 12 pochi mesi fa, e a cui Yanucovich aveva ceduto in cambio di un occhio chiuso sul suo “regno”, ha bloccato la prima tranche già bonificata: vuole vederci chiaro, aspetta il nuovo governo. Putin sa che chiunque voglia governare in Ucraina dovrà parlare anche con lui.

Qualcuno a Mosca, l’Ucraina l’ha definita “un’entità gepolitica temporanea”; 45 milioni di abitanti che vivono in un territorio che, Russia esclusa, rappresenta lo stato più esteso d’Europa con i suoi 600 mila chilometri quadrati, ma che ha visto negli ultimi vent’anni la popolazione ridursi di 6 milioni di abitanti, a causa della bassa natalità, dell’alta mortalità e dell’emigrazione – gli ucraini famosi, non vivono in Ucraina, a partire dal calciatore Andriy Shevchenko, fino alle attrici Mila Kunis e Milla Jovoich e al boss di Whatsapp Jan Koum. La dipendenza dalla Russia per l’export è quasi totale, soprattutto per il settore alimentare (il paese gode di un territorio molto propenso alle attività agricole, tanto che per far cassa si è passato a vendere diverse porzioni di territorio per il landgrabbing, fece discutere “l’affitto del 5% del territorio alla Cina“). E anche le famose pipelines sono malconce, tutte strutture risalenti all’epoca sovietica, niente di paragonabile agli standard richiesti dall’Occidente.

Come per tutto il resto, d’altronde. E parlare con la gente ucraina fuggita qua da noi ne è conferma. L’Ucraina, “regione di frontiera” in russo, ha vissuto fin dall’indipendenza del 1991 un blocco psicologico davanti a una scelta: andare verso ovest o restare legati alla Russia: il compromesso, triste, è stato l’immobilismo, che ha inevitabilmente appesantito il Paese.

Eppure Putin vuole Kiev. Diceva l’ex Segretario di Stato americano Zbigniew Brzezinski, che la Russia senza l’Ucraina non è un impero. Quello per cui Putin lotta, non sono le vie del gas – i nuovi gasdotti passeranno per la Crimea, dove il distacco sembra molto più probabile della guerra civile – e non sono gli interessi economici o militari (Sebastopoli, la grande base sul Mar Nero, è pure quella in Crimea). Putin teme che si generi una sorta di “primavera slava”, un sentimento strisciante di protesta che soffia da sud, dall’Ucraina (ma tiene d’occhio anche le manifestazioni di Sarajevo dei giorni passati), prendendo sempre più aria spinto anche dalle opposizioni interne delle Pussy Riot o dei colettivi Voina, o ancora degli intellettuali attivisti come Navalny, fino ad arrivare in patria, per le piazze di Mosca, sotto i riflettori del mondo.

Sull’Ucraina Putin si gioca la faccia. Tanto che non valeva la pena di mantenere Yanucovich: sfarinato dalla folla, disorientato nella reazione, un passaggio imbarazzante quei cecchini che sparavano, quel potere senza controllo.

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