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Enrico Mattei, singolarità o esempio attuale?

Al momento dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948, quindi a distanza di qualche anno dalla fine del secondo conflitto mondiale, la produzione industriale ed agricola dell’Italia non raggiungeva i livelli di dieci anni prima. Problema cruciale riguardava le fonti energetiche dopo che il fascismo aveva contenuto il problema con un sistema idroelettrico d’avanguardia, ma che mostrava – strategicamente parlando – notevoli limitazioni.

D’altra parte, la fase del petrolio era iniziata da prima della guerra e, anzi, i Paesi non produttori di idrocarburi l’avevano persa anche per questo (come molti studiosi di quel conflitto hanno dimostrato); era anche iniziata la sfida atomica che, dopo esser risultata anch’essa determinante ai fini bellici, cominciava a promettere un’utilizzazione industriale e civile di grande interesse: non fu un caso, infatti, se gli accordi di Bretton Woods del 1944 precedettero la conferenza di Yalta (un anno prima di Hiroshima e Nagasaki, infatti, si sapeva già con certezza chi avrebbe vinto, possedendo, appunto, l’arma atomica).

Il fascismo, peraltro, aveva affrontato e, per certi versi, risolto i problemi della crisi finanziaria ed economica degli anni Trenta con un intervento pubblico d’avanguardia che spaziava dal credito (la legge di separazione bancaria – in USA fu la Glass Steagall – del 1936), alle infrastrutture (ponti, strade, ferrovie), alle industrie (l’IRI ed altre partecipate, gestite con logiche prettamente economiche, ma di proprietà dello Stato), all’agricoltura (le bonifiche e non solo), alla produzione di elettricità, come si è già accennato. Lo stesso fascismo aveva costituito l’AGIP, ma con scarse fortune e l’ex partigiano Mattei (a cui, peraltro, si rinfacciava anche una pregressa tessera del Littorio) fu incaricato, dopo il 1945, di liquidarla; incarico che svolse malissimo – secondo i politici di sinistra del tempo (che vedevano nell’AGIP un comico carrozzone autarchico e quelli di destra quando si accorsero dell’impostazione antiamericana del marchigiano – perché Mattei prima traccheggiò, poi delineò una strategia di allargamento della missione dell’Ente, infine riuscì ad impedire che il Parlamento italiano varasse una legge che consentiva agli USA di detenere una sorta di monopolio in materia.
Figuriamoci, dunque, l’entusiasmo che potè suscitare la scoperta di idrocarburi nella pianura padana e dintorni e la possibilità di rivisitare una piccola partecipata pubblica per farne, già sul finire degli anni ’40, qualcosa che potesse aiutare l’Italia ad uscire da una millenaria insufficienza energetica.
Mattei, dunque, si mise a capo di ciò, incontrando non poche resistenze, vinte grazie ai suoi appoggi politici, in parte democristiani, ma anche di altri partiti di sinistra (sfruttando l’aspetto antimperialistico della sua intrapresa), lui che poteva vantare un trascorso da partigiano di tutto rispetto.

Ma il progetto di Mattei fu ben più articolato ed ambizioso: partendo dall’occasione di un fatto che, tutto sommato, sarebbe stato marginale (il ben poco petrolio e gas della pianura padana e del mare adriatico) e, grazie ad uno spregiudicato utilizzo degli appoggi politici e delle influenti amicizie internazionali (soprattutto Unione Sovietica e Paesi Arabi), riuscì ad assicurare all’Italia un flusso di gas e di idrocarburi senza il quale nessun miracolo economico sarebbe stato possibile; Enrico Mattei cominciò con accordi in sordina presso lo Scià di Persia (dopo il fatale errore USA di eliminare l’intraprendente Mossadeq), ma è noto nel mondo per i rivoluzionari accordi con i Paesi Arabi (apprezzati dai Russi che vi vedevano una maggiore giustizia sociale e, soprattutto, un indebolimento degli interessi e dell’influenza angloamericana nell’area) e che prevedevano un’equa spartizione dei guadagni tra produttori e compratori. Fino a Mattei, infatti, i compratori erano più che altro le compagnie petrolifere occidentali – sinistramente note come le “7 sorelle” – che pagavano il greggio una miseria; Mattei offrì il 75% dei profitti in cambio delle licenze di estrazione, consentendo agli Arabi di guadagnare molto di più, di contenere i prezzi degli idrocarburi in Italia, di spiazzare l’agguerrita concorrenza americana, inglese, olandese ed anche francese. In effetti, si può dire – da una parte – che Mattei gettasse con dieci anni di anticipo le basi dell’OPEC e, tuttavia, l’operazione più molesta (secondo gli osservatori filocolonialisti) fu proprio quella in Algeria dove si rifiutò di sottoscrivere un allettante contratto con le 7 Sorelle schierandosi apertamente per il futuro Stato indipendente. In questo modo costrinse le 7 Sorelle o ad appoggiare la Francia andando da sole o a schierarsi con gli indipendentisti!

Fu minacciato dai servizi della legione straniera francese e di lì a poco il suo aereo venne sabotato, in Sicilia, da mafiosi amici degli amici d’oltre confine.
La sua morte, avvenuta in modo non molto misterioso nel 1962, fu subito ricondotta a tali circostanze (non meno promettente, peraltro, si rivelò la “pista interna”, riguardante il suo braccio destro Eugenio Cefis che lo stesso Mattei scoprì e denunciò quale collaboratore della CIA); e le prove dell’attentato al suo aereo tramite una bomba al tritolo, collegata all’accensione delle luci o all’attivazione del carrello di atterraggio, furono acclarate dalla magistratura…43 anni dopo!
Ma sarebbe riduttivo ricordare unicamente la sua grande figura per le circostanze sin qui descritte: Mattei fu e fece molto di più.

Non è difficile argomentare che l’ottenimento delle licenze richiedeva, a monte, la capacità di estrarre – in modo competitivo rispetto alle stesse 7 sorelle – il petrolio da giacimenti sempre più profondi; e, a valle, di disporre di impianti di raffinazione adeguati, per non parlare delle problematiche connesse al trasporto ed alla distribuzione.

Tutta la strategia di Mattei era basata sulle concessioni estrattive; ma Mattei volle un’ampia integrazione verticale di tutta la macchina che andava dalla ricerca di giacimenti fino alle pompe di benzina e oltre; così nacquero società di impiantistica ed un’industria petrolchimica che furono tra le migliori del mondo se non le migliori.

Grazie all’aumento delle economie di scala proprie delle industrie italiane – oramai lanciate nel contesto internazionale – Mattei siglò accordi con la Russia, con la Cina e con altri importanti Paesi di quasi tutti i continenti per la costruzione di importanti infrastrutture; ma ciò portava con sé la formazione, la cultura, l’ampliamento degli scambi internazionali.
Alla morte di Mattei e nel ventennio successivo, l’ENI non mancò di crescere per divenire uno dei più grandi, se non il più grande, colosso mondiale (se si considerano le complementarietà con gli altri enti italiani a partecipazione statale, in primis l’IRI) dell’energia, della petrolchimica e delle infrastrutture.

Il successo di Mattei e dell’ENI fu reso possibile da una cultura capitalistica che vedeva nella crescita delle vendite il suo principale riferimento: la massimizzazione del profitto non si riferiva alla sua incidenza sul capitale o investimento, ma alla massima crescita di quest’ultimo a condizioni del mercato, vale a dire di espansione sostenuta dalla domanda (pubblica o privata che fosse). Fiore all’occhiello di questa impostazione fu il salvataggio di un’industria meccanica fiorentina – il Pignone – fortemente caldeggiata dall’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira (quello un santo), salvataggio che si rivelò un successo industriale, consentendo il lancio di un’azienda leader a livello mondiale nel comparto delle turbine (per la cronaca, l’azienda fu poi svenduta, alla fine degli anni ’90, dai governi con partecipazione comunista – si fa per dire – alla General Electric che provvide a indebolirla ed a farla a pezzi).

Quella di Mattei (considerato un grande peccatore ed un grande corruttore, infatti soleva giustificarsi quando gli si obiettava che destinava fondi neri un po’ a tutti i partiti che questi ultimi venivano utilizzati “come taxi, salgo, li utilizzo, pago, scendo”) e di La Pira (il santo, un vero santo) è una cultura che caratterizza tutta la storia dell’economia dagli accordi di Bretton Woods fino alle svolte reazionarie alla fine degli anni ’70. Queste ultime, infatti, hanno posto ad obiettivo cruciale delle attività produttive la massimizzazione del rendimento dell’investimento o saggio di profitto: un indicatore di natura finanziaria, comune alle obbligazioni (imperanti, con alti tassi di interesse, durante gli anni ’80) ed alle azioni. Dopo la fine degli anni ’70, dunque, l’economia reale viene sacrificata – come è noto – sull’altare della finanza e delle sue irrealizzabili promesse che aprono al baratro degli impegni non sostenibili, dei debiti a go go e della bancarotta generale in un quadro di crescente disoccupazione e desolante regresso sociale.
Tutto il contrario avveniva ai tempi di Mattei ed anche per un quindicennio a seguire: l’espansione costituiva il fondamento dello sviluppo economico sia per quanto riguardava le imprese capitalistiche, sia per quanto riguardava gli investimenti pubblici. La formula italiana, peraltro, si era rivelata particolarmente efficiente soprattutto a proposito delle imprese – di cui l’ENI, assieme all’IRI, rappresentava il massimo – di proprietà dello Stato, ma gestite con criteri di economicità. In realtà, il tasso di rendimento, dell’ultimo investimento puntava a zero, ma siccome si massimizzavano l’occupazione ed il reddito totale, si minimizzavano le spese di assistenza ai disoccupati: non si dimentichi mai che il fenomeno migratorio degli Italiani all’estero si riduce con la crescita delle industrie a partecipazione statale.

La crescita degli investimenti fisici, a prescindere dal reddito da essi direttamente ed immediatamente generato, costituisce la chiave di volta dello sviluppo economico e sociale; esso, tuttavia, portava alla tendenza a ridursi del saggio del profitto con la duplice conseguenza di emarginare il ruolo della proprietà nell’azienda e nella società e di far crescere le aspettative democratiche della classe media e dei lavoratori.

Contro tale prospettiva, un quindicennio dopo la morte di Mattei, si scatenò la reazione antidemocratica dei ceti possidenti che, in nome del rendimento finanziario della proprietà, dei limiti nello sfruttamento delle risorse del pianeta, del contenimento delle tasse e della spesa pubblica, cominciarono ad ottenere un capovolgimento culturale e di prospettive economiche.
Mattei aveva intuito l’importanza dell’ambiente e del nucleare (non si dimentichi che l’Italia era all’avanguardia in quest’ultimo settore fino all’inizio degli anni ’60 ed aveva raggiunto la prima centrale che non utilizzava uranio arricchito o militare e, si osservava, anche questo aveva dato fastidio a livello internazionale: infatti dagli USA e dalla Francia provenivano veti e limitazioni di sovranità verso il Belpaese.

All’ENI ed all’IRI sapevano – contrariamente alle errate farneticazioni malthusiane del club di Roma e dintorni – che, al crescere dell’innovazione tecnologica, la quantità di agenti inquinanti e di risorse scarse o pregiate per unità di prodotto tendeva a ridursi. Viceversa, la artificiosa limitazione dello sviluppo (e, in seguito, le caratteristiche della globalizzazione non basata su innovazione e qualità, ma solo sul taglio selvaggio dei costi), contenendo l’avanzamento delle tecniche – che è un portato dello sviluppo e della esigenza di ridurre le risorse per unità di prodotto al crescere di esso – determina l’aumento di inquinamento e cattivo utilizzo delle risorse stesse proprio a causa dello scarso avanzamento dell’intensità energetica.

Nessuno può dire cosa avrebbe fatto Mattei in Italia e nel mondo dopo il 1962, ma certamente possiamo ipotizzare che, oggi, la sua massima attenzione sarebbe per i BRICS e che avrebbe appoggiato, in tutti i modi, le forze politiche che avessero aperto un dialogo ed una collaborazione con Russia, Cina e India finalizzato a definire un sistema mondiale idoneo a proseguire un percorso accettabile di civiltà e di benessere generalizzato; comunque, sappiamo che i suoi successori non fecero crescere la diversificazione produttiva dell’ENI neanche durante il ventennio compreso tra la fine violenta del grande imprenditore e l’inizio di una politica economica fortemente penalizzante per la sovranità del Paese.
Le stesse industrie a partecipazione statale – che tutto il mondo ci invidiava – venivano derise da giornalisti ed osservatori di scarso spessore che le additavano ad imprese inutili, in perdita e mera fonte di corruzione. La Storia ci ha spiegato quanto esse siano state fondamentali per l’eccezionale sviluppo del Paese tra la fine degli anni cinquanta ed i ’70; analisi di studiosi seri hanno indicato come le industrie a partecipazione statale facessero investimenti più elevati delle private, sicchè, sommando profitti ed ammortamenti, si ottenevano saggi di redditività lordi non diversi; la corruzione, invece, rappresentava un problema serio, ma la fine del modello a partecipazione statale e degli elevati investimenti pubblici ha provocato, in Italia, la fine dello sviluppo pur senza evidenziare alcuna riduzione, ad oggi, dei fenomeni di corruzione: i quali, evidentemente, devono e possono essere affrontati a prescindere dall’aver condannato alla disoccupazione a vita milioni di giovani Italiani quale conseguenze delle politiche restrittive volute da circa trent’anni per “moralizzare” il Paese (come si è già detto, con risultati ben scarsi nella lotta alla corruzione e, invece, particolarmente rilevanti nella perdita di sovranità, nel crollo degli investimenti, nel ritardo scolastico, scientifico, sanitario, infrastrutturale).

L’attualità di Mattei richiede, quindi, il ritorno ad un’economia sostenibile in termini sociali, con investimenti pubblici, ricerca, scuola, formazione, infrastrutture adeguate, soddisfacente cura delle persone: obiettivi non conseguibili senza un ritorno alla sovranità monetaria, il ripristino della netta separazione tra banche di credito e finanza speculativa, una pubblica amministrazione che si faccia direttamente carico di collaborare con i cittadini per realizzare gli adempimenti previsti da leggi e regolamenti. Tutto ciò in un contesto di cooperazione tra Stati sovrani che, nello spirito del Trattato di Westfalia, si rispettino, nel comune interesse a crescere e scambiarsi esperienze e capacità. Era questo, infatti, il metodo di Mattei e di tanti altri grandi statisti italiani oggi scomparsi, ma non per questo meno attuali: dialogare tra popoli e culture diverse mettendo a disposizione risorse e capacità con l’unico obiettivo di vedere una crescita economica sostenibile perché adeguata alle esigenze di benessere e di libertà delle popolazioni.



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