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Bestie, vermi, sciacalli. Breve storia degli insulti da Togliatti a Salvini

In una società che usiamo chiamare civile ma pratica sempre di più il turpiloquio, in privato e in pubblico, si è aperto uno stravagante processo a Matteo Renzi per avere definito “bestie” Matteo Salvini e quanti altri non hanno rinunciato ai loro argomenti contro gli imponenti flussi immigratori neppure di fronte alla foto del bimbo siriano annegato e spinto dalla risacca su una spiaggia turca. O, dalla parte opposta, un processo a Salvini per avere risposto a Renzi dandogli del “verme”, dello “sciacallo” e altro ancora per avere abusato di quella foto.

Mi chiedo quando mai è esistito nella nostra Italia un dibattito politico immune dall’insulto. Che nella quasi settantennale storia della Repubblica esordì nella piazza romana di San Giovanni con il proposito annunciato ai militanti del Partito Comunista dal segretario Palmiro Togliatti di “cacciare a calci nel sedere”, variante del culo, il presidente del Consiglio democristiano Alcide De Gasperi, se le sinistre unite fossero riuscite a vincere le elezioni politiche del 18 aprile 1948. Eppure Togliatti era stato sino all’anno prima ministro della Giustizia proprio di De Gasperi, che comunque uscì vincente dalle urne sfuggendo alle pedate degli avversari.

I “vaffanculo” di Beppe Grillo, ma anche di Salvini, che ne gridò uno l’anno scorso alla Corte Costituzionale, hanno quindi un illustre e lontano precedente. Che pure era sfuggito ad un oratore  colto e di solito forbito, tanto da essersi una volta guadagnato all’Assemblea Costituente gli apprezzamenti di un uomo politicamente lontanissimo da lui come Benedetto Croce.

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Si deve al pur forbito Togliatti anche il primo ricorso agli insetti nella polemica politica della nostra Repubblica. Fu lui a definire nel 1951 “pidocchi nella nobile criniera di un nobile cavallo da corsa” due deputati comunisti che lo avevano contestato venendo poi espulsi dal partito: Aldo Cucchi e Valdo Magnani, peraltro cugino di Nilde Iotti, che era la compagna in tutti i sensi, anche familiare, del segretario del Pci.

I pidocchi sono sotto certi spetti anche peggiori del vermi evocati da Salvini contro Renzi. E non so se migliori dei topi ai quali il sindaco di Roma Ignazio Marino ha recentemente paragonato i suoi critici da destra proponendosi di ricacciarli nelle “fogne”.

Sempre a Togliatti si deve anche l’esordio della inclemenza davanti all’avversario che muore. Pentito, in particolare, di avere apprezzato pubblicamente De Gasperi appena defunto, egli scrisse al compagno Fausto Gullo per scusarsene e dare al leader democristiano del “torbido e ottuso”.

Si deve invece a Umberto Bossi, nei primissimi anni della cosiddetta seconda Repubblica, la liquidazione dei suoi critici di turno, fuori e dentro la Lega, come “scoregge nello spazio”.

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E’ stravagante anche la polemica sviluppata da destra contro il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano per avere evocato alla base del Partito Democratico “la tradizione comunista e il riformismo cattolico”, esortando dirigenti e militanti a tenere conto dell’una e dell’altro. E quindi a non pretendere  – si può desumere – di trasformare il Pd in una Dc 2.0, come Renzi viene sospettato di voler fare, vista la sua provenienza.

A parte la circostanza nella quale Napolitano ha parlato, ricordando a Bologna nel trigesimo della morte l’amico e compagno Renato Zangheri, a lungo sindaco della città stimato giustamente anche dagli avversari, non si capisce davvero dove stia lo scandalo gridato contro l’ex “Re Giorgio”. Ha detto cose non vere? Il Pd non è stata forse la fusione fra i reduci del partito comunista e della sinistra democristiana? Ha forse evocato la tradizione comunista per smentire il riconoscimento ripetutamente fatto, in discorsi e libri, degli errori compiuti anche da lui in quella che era diventata “la gabbia” dell’ispirazione all’Unione Sovietica?

A tanti vecchi e giovani esponenti del Pd che, pur provenendo dal Pci, hanno la pretesa di far credere di non essere mai stati comunisti sono preferibili personalità come Napolitano e il suo quasi coetaneo Emanuele Macaluso. Che con dignità si portano addosso il loro passato, avendo peraltro svolto nel partito d’origine meritoria opera di minoranza, pur con tutti i limiti, e i rischi, derivanti dal cosiddetto centralismo democratico di via delle Botteghe Oscure. Macaluso peraltro non ha neppure voluto iscriversi al Pd. E Napolitano non ha aderito come senatore di diritto, e a vita, al gruppo parlamentare piddino.

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