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Perché la Cina fa imbizzarrire i mercati

Di Marcello Bussi e Mariangela Pira

Tutte le borse hanno iniziato il 2016 colpite in pieno dalla sindrome cinese. Sono infatti tornati i timori di una brusca frenata della seconda economia mondiale, come era successo lo scorso agosto. Timori che all’epoca avevano addirittura spinto la Federal Reserve a rinviare a dicembre il rialzo dei tassi d’interesse che tutti avevano previsto invece per settembre.

Quella di ieri è stata dunque una seduta da dimenticare per borse cinesi: il Csi 300, indice delle 300 maggiori società quotate a Shanghai e Shenzhen, ha perso il 7% alle 13:34 ora locale, causando la sospensione delle contrattazioni proprio nella prima giornata d’introduzione del nuovo meccanismo di congelamento dei titoli per eccesso di ribasso. Lo Shanghai Composite, l’indice di Shenzhen e il Csi300 hanno chiuso rispettivamente con un calo del 6,9, dell’8,1 e del 7%. In calo anche l’Hang Seng a Hong Kong (-2,7%), mentre la borsa di Tokyo ha accusato un ribasso del 3,1%. Quattro le ragioni di questo crollo: il dato sull’attività manifatturiera della Cina, i cambiamenti che a partire da ieri riguardano lo yuan, il fatto che a breve verrà abolito il divieto alla vendita di partecipazioni per i grandi azionisti, introdotto dopo le turbolenze sui mercati dell’estate scorsa, e l’inasprimento del confronto tra Arabia Saudita e Iran.

L’indice Pmi manifatturiero elaborato da Caixin, gruppo media privato, è considerato uno strumento attendibile perché si focalizza sulle piccole e medie imprese, segmento che viene lasciato fuori dal dato ufficiale, e a dicembre è risultato pari a 48,2 punti rispetto ai 48,6 di novembre: l’indice si è quindi collocato al di sotto di quota 50, ovvero in territorio di contrazione, per il decimo mese consecutivo. Il peggioramento è dovuto ai problemi di eccesso di capacità produttiva delle aziende cinesi e all’indebolimento della domanda globale. Sotto quota 50 anche il Pmi servizi, che ha comunque centrato le attese degli analisti a 49,7 punti. «Non si tratta di un brusco calo ma non c’è da stare allegri», ha commentato Donna Kwok, economista per la Cina di Ubs. Mentre Xia Le, economista di Bbva, ha osservato che «le piccole e medie imprese sono sempre più sotto pressione».

Larry Milstein, strategist di R. W. Pressprich & Co., ha invece osservato che «i mercati guardano con scetticismo alle misure prese dalla Cina per stimolare la crescita e sostenere il mercato azionario». Mentre Lin-Jing Leong, di Aberdeen Asset Management, ha avvertito che «una grossa parte del mercato è ancora convinta che la Cina stia andando meglio di quanto non vada in realtà». Sempre ieri, lo yuan è sceso ai minimi dal 2011 nei confronti del dollaro, a 6,5032, con l’inizio del nuovo orario di contrattazione della divisa cinese. Si comincia sempre alle 9,30 ora locale sul mercato del foreign exchange di Shanghai, ma la chiusura è stata spostata dalle 11,30 alle 16,30. Questo significa che per gran parte del tempo le contrattazioni coincideranno con quelle della sessione europea, nell’intento di fare in modo che lo yuan venga sempre più utilizzato a livello globale. Si tratta infatti di un fondamentale passo avanti perché sia raggiunta la convergenza tra il tasso offshore e onshore dello yuan. «Rispetto allo status quo ci sono stati passi avanti», ha dichiarato Nizam Idris di Macquarie, «ma lo yuan onshore rimane comunque inaccessibile a quasi tutti gli investitori stranieri, se si escludono le banche centrali».

Insomma, l’interesse nei confronti dello yuan sicuramente crescerà, ma di fatto gli investitori esteri continueranno a contrattare lo yuan offshore (Cnh ), non quello della Cina continentale (Cny). Al crollo di ieri ha contribuito anche la situazione sul fronte geopolitico. «La Cina ha fatto investimenti molto importanti nell’industria petrolifera iraniana», ha sottolineato Gavin Parry, managing director di Parry International Trading, «e l’escalation delle tensioni tra Iran e Arabia Saudita peserà di certo sulle aspettative degli analisti». Lo stesso vale per i commenti di alcuni rappresentanti della Federal Reserve, sostenitori della linea dura sul fronte dei tassi d’interesse, in quanto «i mercati continueranno ad anticipare gli ulteriori rialzi del costo del denaro da parte della Banca centrale Usa nel 2016», ha detto Parry. Secondo il presidente della Fed di San Francisco, John Williams, il rallentamento dell’economia cinese non è un rischio sistemico per gli Stati Uniti. Una dichiarazione interessante, visto che l’anno scorso la Fed ha rinviato a dicembre il rialzo dei tassi previsto a settembre proprio a causa dei timori di una brusca frenata della seconda economia mondiale. Maury Obstfeld, capo economista del Fondo monetario internazionale, ha invece dichiarato che l’economia cinese «sta rallentando mentre effettua una transizione dagli investimenti e dalla manifattura ai consumi e ai servizi. Ma il contagio globale derivante dalla riduzione del tasso di crescita della Cina, attraverso il calo delle importazioni e della domanda di materie prime, è stato molto più ampio delle nostre attese. Una crescita inferiore ai target ufficiali delle autorità cinesi potrebbe nuovamente destabilizzare i mercati finanziari globali».

Fra le prime vittime della sindrome cinese, bisogna contare il real brasiliano, che ieri è crollato nei confronti del dollaro, con il biglietto verde salito a 4,0408 da 3,9584 della chiusura di venerdì scorso. Non c’è da stupirsi, visto che la Cina è il maggiore partner commerciale del Brasile, soprattutto per quanto riguarda il mercato delle commodity. Una brusca frenata cinese è inoltre destinata a mettere sotto stress il mercato dei bond high-yield, già in difficoltà a causa del rialzo dei tassi da parte della Fed e del calo del petrolio.

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