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Che cosa (non) ha detto Di Pietro da Mentana su Mani Pulite

Angela Merkel non lo sa. Ma c’è un italiano che avrebbe potuto e potrebbe tuttora aiutarla a prevenire e poi affrontare i guai avuti a Colonia e in altre parti della Germania per gli effetti indesiderati della sua fiduciosa, seppure contraddittoria, gestione degli immigrati.

Questo italiano, per un po’ emigrato anche lui in Germania, ma quando il Paese era diviso in due e la Merkel, giovanissima come quelle assaltate a Capodanno tra la stazione e il Duomo di Colonia, stava nella parte orientale tutta ordine e disciplina, è il mitico Antonio Di Pietro. Sia come poliziotto sia come magistrato, Tonino per gli amici, Ninì per gli intimi, le avrebbe risparmiato i troppi giorni d’inerzia e di silenzio, rivelatisi per certi aspetti ancora più gravi delle ore di violenza subìte da tante giovani indifese.

Sbrigativo ed efficiente – possiamo dirlo – come lui sapeva essere quando decideva di mettercela tutta, Di Pietro avrebbe imposto mediaticamente il tema, procurandosi altre magliette e gadget propiziatori e soprattutto individuando e ammanettando parecchi giovani, e forse anche non giovani, letteralmente indegni dell’accoglienza ottenuta o reclamata.

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Ma la scorsa notte Di Pietro ha avuto altro da fare, lontano da Colonia e anche dalla sua Montenero di Bisaccia. Ospite di Enrico Mentana a La 7, egli ha evocato le gesta giudiziarie del mitico 1992 partecipando, dopo la riproposizione delle prime due puntate di uno sceneggiato fatto e trasmesso da Sky, a un dibattito ingiustamente danneggiato dall’ora tarda, anzi tardissima: più da quelli della notte, che pure non erano pochi ai tempi migliori di Renzo Arbore, che da quelli della sera. Un dibattito che per il tema trattato, sempre caldo, anche a 24 anni di distanza dai fatti, e per le altre persone coinvolte – dallo stesso Mentana, che non si è limitato a condurre, avendo anche lui cavalcato le polemiche, a Bobo Craxi, da Vittorio Feltri a Giorgio Gori – è stato obiettivamente il più onesto, civile e gratificante di quelli prodotti da quel 1992 in poi.

Ognuno ha fatto onestamente la sua parte, di protagonista, di testimone, di vittima, di cronista, di ex o di aspirante politico, senza acrimonia, o con meno acrimonia del solito. E con passaggi apprezzabili o disarmanti d’ilarità, voluta o non voluta che fosse.

La prima risata Di Pietro ha saputo strapparmela quando ha voluto di nuovo liquidare come “minchiata” il fatto, contestatogli in particolare da Bobo Craxi e dallo stesso conduttore, di essersi candidato la prima volta alle elezioni politiche a sinistra, dopo avere dichiaratamente votato nel 1992 per il Movimento Sociale, accettando il collegio senatoriale e blindatissimo del Mugello. Che gli era stato offerto proprio da quel Pds-ex Pci uscito – guarda caso – indenne o meno colpito di altri dalle indagini e dai processi di Tangentopoli, o Mani pulite.

Eppure il partito allora guidato da Massimo D’Alema, di suo o nell’edizione precedente, era stato partecipe come gli altri del fenomeno del finanziamento illegale della politica. Un fenomeno già ammesso in Parlamento dall’allora segretario del Psi Bettino Craxi, all’inizio delle indagini giudiziarie, e ripetuto nel tribunale di Milano con una testimonianza al processo Enimont. Che Di Pietro, difendendosi dall’accusa rivoltagli a caldo da Eugenio Scalfari di avere fatto “la pecora” davanti al soverchiante, sicuro e argomentato Craxi, ha catalogato come “confessione giudiziaria”. Della quale si è attribuito il merito come magistrato d’accusa, così giustificando la sua insolita rinuncia a incalzare e assaltare, non dico fisicamente ma dialetticamente sì, il testimone o imputato di turno.

Una parte di quella testimonianza di Craxi è stata opportunamente riproposta ai telespettatori in un’ampiezza inusitata, che ha potuto fare apprezzare la solidità dei fatti e degli argomenti anche ai più critici o ai più diffidenti verso il leader socialista, destinato di lì a pochi anni – non dimentichiamolo – a morire poco serenamente e lontano dal suo paese.

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Un altro momento d’ilarità è stato offerto da Di Pietro quando, scomodando e ammaccando il latino, ha definito la sua avventura giudiziaria un coito interrotto, con chiara allusione anche alle sue improvvise dimissioni da magistrato nel 1994. I cui motivi Di Pietro deve riconoscere che sono rimasti incompresi a molti, almeno fra i non addetti ai lavori, sicuramente più numerosi degli addetti.

Quel “coito interrotto” comunque basta e avanza, al di là delle intenzioni e dell’ironia dell’ex magistrato, a dare di quella stagione giudiziaria e persino “rivoluzionaria”, con le sue ghigliottine mediatiche ma anche con qualche morto vero, una immagine cui nessuna indagine e nessun processo serio dovrebbe aspirare. Se non a prezzo di bizzarrie, che in effetti sono state e sono tuttora tante quando si riflette su ciò che è accaduto.

Appartiene alle bizzarrie di quella stagione, e successive, anche la circostanza, giustamente sottolineata da Mentana, della comune partecipazione di Di Pietro e di Bobo Craxi, così severo con la decapitazione della politica per mano giudiziaria, al secondo e fortunatamente ultimo governo di Romano Prodi: l’uno come ministro e l’altro come sottosegretario, fortunatamente in due dicasteri diversi. Nello stesso, sarebbe stato davvero il colmo.

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