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Che cosa non ha detto Eugenio Scalfari su Luigi Calabresi da Fabio Fazio

Lunga vita, naturalmente, a Eugenio Scalfari. Ancora più lunga dei 91 anni ben portati e felicemente compiuti il 6 aprile scorso, e dei 92 che compirà fra meno di tre mesi. Ma da suo lettore assiduo e ormai affezionato, sia pure più spesso dissidente che assenziente, mi permetto un’osservazione critica sui pur deliziosi 18 minuti e 34 secondi d’intervista televisiva da lui concessi a Fabio Fazio, nel salotto domenicale di Rai 3, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro “L’allegria, il pianto, la vita”, del quarantesimo compleanno della sua Repubblica, appena celebrato, e dell’insediamento di Mario Calabresi alla direzione. Al quale naturalmente auguro di restarci almeno quanto i suoi due predecessori, lo stesso Scalfari ed Ezio Mauro, che hanno diretto il giornale per vent’anni ciascuno.

L’osservazione critica riguarda, come vedrete, più l’intervistatore che l’intervistato. Ma anche l’intervistato poteva supplire alla dimenticanza, o all’eccessivo ossequio, dell’intervistatore parlandone di sua iniziativa quando la loro conversazione ha riguardato la nomina e l’arrivo del nuovo direttore a Repubblica. Che Scalfari, invitato espressamente e caldamente dallo stesso Calabresi, ha deciso di aiutare ad “ambientarsi” non facendo mancare all’”atmosfera” del giornale , “almeno per un anno” ma augurabilmente “anche due”, i suoi lunghi e abituali interventi domenicali. Essi lo costringeranno – ha spiegato Scalfari, aiutato da Fazio con apposite interruzioni – a leggersi ogni giorno, per tenersi informato e commentare eventi e problemi alla fine della settimana, un bel pacco di quotidiani, compresi quelli “non graditi”. Spero, ovviamente, che guardi anche i giornali elettronici.

Come abbiamo già riferito qui, su Formiche.net, nel primo intervento domenicale dopo l’insediamento del nuovo direttore, Scalfari ha fatto sentire bene l’atmosfera del giornale contraria alla forte polemica ingaggiata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi col presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker. Una polemica dalla quale Calabresi si era tenuto prudentemente lontano nell’editoriale di esordio e che Scalfari ha attribuito ad un “nazionalismo” pericolosamente coltivato da Renzi. Un nazionalismo che addirittura non si sentiva più dai tempi di Mussolini e poi del Movimento Sociale. Un nazionalismo che, confinante con il populismo, potrebbe anche procurare al presidente del Consiglio e al suo partito, senza neppure bisogno di chiamarlo esplicitamente partito della Nazione, qualche voto in più, e toglierne a grillini e a leghisti, ma pregiudicherebbe il progetto dell’Europa “federale”, considerato invece da Scalfari l’obiettivo più vantaggioso per tutti. O comunque, l’obiettivo della sua lunga vita, perseguito con l’unica arma a sua disposizione: quella del giornalismo, peraltro imbracciata dopo essere stato licenziato, giovanissimo, dalla banca per la quale lavorava, come lo stesso Scalfari ha raccontato.

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Quando Mario Calabresi si sarà ben bene ambientato respirando a pieni polmoni l’atmosfera della Repubblica, per quanto vi abbia già lavorato per sette anni prima di andare a dirigere La Stampa, Scalfari potrà giustamente considerare compiuta un’altra parte della sua lunga missione professionale. Nel frattempo non sarebbe stato male se, a mio modestissimo e per niente provocatorio avviso, e nonostante la mancanza di una stimolante domanda del suo intervistatore su questo tema, Scalfari avesse colto l’occasione per scusarsi pubblicamente di un torto procurato nel 1971, per quanto involontariamente, per carità, al bambino Calabresi. Che aveva tutto il diritto di godersi a lungo il padre, il commissario di Polizia Luigi Calabresi, colpito invece nella propria immagine di uomo e di funzionario dello Stato proprio quell’anno da un documento firmato da più di 700 intellettuali di sinistra, che Scalfari ritenne di sottoscrivere.

Quel documento fu scambiato dai militanti del movimento di estrema sinistra Lotta Continua come un atto d’accusa a Luigi Calabresi, difformemente anche dalle risultanze giudiziarie, per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato nel cortile della Questura di Milano dopo essere stato fermato per la strage avvenuta tre giorni prima, il 12 dicembre del 1969, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana.

Purtroppo la campagna d’odio contro il commissario Calabresi sfociò il 17 maggio dell’anno successivo a quel documento, diffuso per tre numeri consecutivi dall’Espresso, nel suo assassinio, compiuto sotto casa. E per il quale giustizia, una volta tanto, è stata fatta con la condanna definitiva dei responsabili, seppur contestata dagli interessati. Fra i quali Adriano Sofri, già capo di Lotta Continua, cui riconosco il merito, la sensibilità, chiamatela come volete, di avere tolto da ogni imbarazzo il nuovo direttore annunciando, alla sua nomina, la rinuncia ad una vecchia e intensa collaborazione con Repubblica. Che pure avrebbe potuto continuare a tenere, avendola peraltro praticata anche nei già ricordati sette anni trascorsi a Repubblica da Calabresi prima di diventare direttore della Stampa.

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Anche il volontario gesto di rinuncia di Sofri, convinto di non avere ordinato l’uccisione del povero commissario di Polizia ma consapevole di averlo troppo a lungo e ingiustamente attaccato, fa lodevolmente parte di quell’”atmosfera” di Repubblica orgogliosamente rivendicata dal fondatore. Che proprio per questo avrebbe dovuto avvertire l’opportunità – ripeto – di sue pubbliche scuse. Pubbliche perché, se mai ve ne sono state di private, esse non potrebbero bastare per la dolorosa e pubblica enormità dell’accaduto nei pur lontani anni tossici di piombo, quando si faceva presto a sparare sul fronte della protesta militante e altrettanto presto, sul fronte culturale e informativo, ad accendere i pagliai dell’odio scambiando lucciole per lanterne.    

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