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Cosa ricorderei agli studenti nel Giorno della Memoria

Oggi si celebra il Giorno della Memoria. L’Olocausto è un crimine “imprescriptible” (non può cadere in prescrizione), come lo definì il filosofo francese Vladimir Yankélévitch. In fondo, con questa consapevolezza esso fu istituito nel 2005 con una risoluzione dell’Onu (il 27 gennaio è la data in cui nel 1945 le truppe sovietiche scoprirono il campo di concentramento di Auschwitz, liberando i superstiti). In verità, cinque anni prima era stato già deciso dal nostro Parlamento, al fine “di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. […]”.

Mi sono permesso la lunga citazione perché, avendo partecipato nel passato a cerimonie commemorative in alcuni licei, mi è parso che gli studenti (e anche qualche professore) talvolta ignorassero il perché della convocazione nell’aula magna della loro scuola. È quindi necessario spiegare correttamente, anzitutto ai più giovani, le origini, le ragioni e le finalità del Giorno della Memoria. Inoltre, è utile ricordare che il genocidio nazista conquistò la scena giudiziaria e storica non a Norimberga, ma soltanto nel 1961 a Gerusalemme, quando salì sul banco degli imputati Adolf Eichmann. Da questo processo nacque una nuova cognizione della portata della catastrofe, segnando in maniera indelebile la cultura del secondo Novecento. Il merito fu anche del saggio di Hannah Arendt, pubblicato nel 1963, “La banalità del male”.

Il testo scatenò accese polemiche e si attirò le feroci accuse delle autorità israeliane del tempo per l’acquiescenza o la complicità con i nazisti, denunciate dall’autrice, di alcuni dirigenti dei Consigli ebraici (“Judenräte”) nelle zone occupate dell’Est europeo. Ma la chiave della “banalità” dell’ex tenente colonnello delle SS non era affatto un’invenzione della studiosa tedesca. Come hanno dimostrato le ricerche successive (tra tutte, quella monumentale di Raul Hilberg), Eichmann non era stato altro che un amministratore della burocrazia dello sterminio, un semplice pezzo di quell’ingranaggio governato da norme e pratiche nelle quali era incorporata la disumanità del progetto hitleriano. Venendo all’attualità, il terzo punto che mi piacerebbe sottolineare a una ideale platea studentesca è che al male estremo la comunità internazionale sembra incapace di porre argine.

Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Qui mi limito a un solo monito, pertinente con il tema del Giorno della Memoria: non sottovalutiamo la propaganda del “negazionismo arabo-musulmano” e la sua presa anche in Occidente (chi osa indossare la kippah è considerato ormai un temerario). In questa versione del negazionismo si consuma “la saldatura tra due discorsi apparentemente antinomici, quello di destra e quello di sinistra” (Claudio Vercelli, “Il negazionismo. Storia di una menzogna”, Laterza, 2013). La tesi, in estrema sintesi, è la seguente: poiché il sionismo è una moderna forma di razzismo, le “false vittime” di un genocidio “inesistente” di ieri sono i veri persecutori di ora. Il perno di questo ragionamento è che la nascita e l’esistenza dello Stato d’Israele si avvale di un’indebita patente di legittimità morale. È cioè solamente il frutto della cattiva coscienza dell’Occidente. Il cerchio è chiuso. Il sionismo diventa nuovamente “l’avatar del complotto giudaico. Lo Stato d’Israele assurge a piattaforma simbolica di un libro senza fine, quello del dominio ebraico” (Vercelli, cit.). Lo Stato degli ebrei è insomma un’impostura, l’abusivo destinatario di una solidarietà deviata. Il rapporto che viene stabilito tra il “mito dell’Olocausto” e l’azione contro i palestinesi dei governi di Tel Aviv diventa così l’impasto politico-ideologico che permette di riabilitare sotto mentite spoglie un antisemitismo che affonda le sue radici in una millenaria tradizione. Il pericolo è serio. Discutiamone con i nostri giovani, ma non solo il 27 gennaio di ogni anno.

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