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Ecco vittorie e pene di Matteo Renzi

Il caso – solo il caso?, si chiedono maliziosamente i retroscenisti di professione – ha voluto che la Camera approvasse la riforma costituzionale nel nuovo, seppure non ultimo, passaggio parlamentare proprio il giorno del compleanno del presidente del Consiglio Matteo Renzi, nato  l’11 gennaio 1975. Quando chi scrive, pensate un po’, di anni ne aveva da poco compiuti 36.  E politicamente ne aveva già viste e raccontate di tutti i colori. Benedetta gioventù, quella di Renzi.

Di straordinariamente casuale non c’è stata nel voto della Camera solo la coincidenza con il 41.mo compleanno dell’uomo politico che sulla riforma costituzionale, e sulla verifica referendaria prevista per metà ottobre, ha scommesso tutto, pronto alle dimissioni da capo del governo in caso di sconfitta.

In poche occasioni, solo quelle imposte da ineludibili scadenze istituzionali, fra le quali non si può certo includere il passaggio parlamentare, e neppure l’ultimo, di una legge di modifica della Costituzione, si è votato a Montecitorio di lunedì: un giorno in cui i deputati vanno cercati con il classico lanternino, presi come sono dai loro collegi elettorali, per quanto la pratica delle liste bloccate dai vertici dei partiti abbia allentato i rapporti fra i parlamentari e i loro “territori”.

Le circostanze hanno quindi permesso alla giovane, avvenente e renzianissima ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, ma anche – guarda caso – ministra dei rapporti col Parlamento, di fare al presidente del Consiglio un bellissimo regalo genetliaco. E ciò con un altro diabolicamente incidentale aiuto di quanti altri provvedono nella conferenza parlamentare dei capigruppo a fissare con un certo anticipo il calendario dei lavori d’aula.

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Il dono è stato naturalmente graditissimo a Renzi, che si è affrettato a compiacersi della “maggioranza schiacciante” di 367 sì contro 194 no e 5 astenuti con la quale la sua riforma costituzionale è nuovamente passata alla Camera. Meglio un regalo del genere che un bel cronografo d’oro o d’acciaio, vista la malizia con la quale gli avversari osservano quello che Luca Telese su Libero ha definito “il polso carrozzato” del presidente del Consiglio, raccogliendo una polemica aperta dal Fatto Quotidiano sui troppi e costosi orologi di Renzi. Ai quali peraltro si sono aggiunti – a livello polemico – quelli di gran marca che, donati dal Re dell’Arabia Saudita nel recente viaggio del capo del governo italiano e dei suoi numerosi accompagnatori a Riad, egli ha dovuto requisire e chiudere in qualche cassaforte di Palazzo Chigi. Una reazione allo scomposto spettacolo offerto dai suoi collaboratori e invitati, che si contesero i regali nella reggia saudita come neppure i beduini da quelle parti fanno più.

Di quello spettacolo, lesivo anche del divieto imposto a ministri e dipendenti pubblici di trattenere regali superiori al valore, rispettivamente, di 300 e di 150 euro, Renzi è rimasto tanto umiliato che non ha ancora trovato la forza di parlarne e scusarsene di persona in pubblico. Come sarà forse opportuno fare, anche per spuntare una polemica per lui obbiettivamente scomoda, cui il Fatto non rinuncerà certamente di suo, vista la crescente e non immeritata avarizia del pubblico nelle edicole ben motivata da Guido Mattioni su Formiche.net. Per vendere qualche copia in più, o non perderne ancora, si fa tutto.

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Per quanti sforzi abbiano fatto la ministra Boschi e la maggioranza della Camera per allietargliela, la festa di compleanno di Renzi è stata guastata da un’intervista velenosa dell’ormai solito Massimo D’Alema, non ancora rottamato abbastanza agli occhi del presidente del Consiglio e segretario del Pd, visto l’ascolto che gli concedono giornali diffusi e importanti come il Corriere della Sera.

È stato proprio al Corriere, e ad una firma di punta come quella di Aldo Cazzullo, che D’Alema ha affidato nel giorno del compleanno di Renzi un giudizio liquidatorio sulla sua politica estera, e sulla pretesa di “sbattere i pugni sul tavolo” europeo per vendicare gli anni in cui i governanti italiani andavano a Bruxelles “col cappello in mano”. Rappresentazione che, sentendosi coinvolto, D’Alema ha contestato col ricordo delle autorevoli prestazioni europee, secondo lui, di Carlo Azeglio Ciampi e di Romano Prodi, prima che si presentassero per l’Italia a Bruxelles Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti.

Come se avesse sentito nell’aria i fulmini di D’Alema, il 41.enne capo del governo aveva precisato il giorno prima al Tg1 di non volere sbattere i pugni sul tavolo a Bruxelles contro la cancelliera tedesca Angela Merkel o altri, ma solo “alzare la mano” per porre domande e questioni. Mano rigorosamente al singolare, perché al plurale significherebbe purtroppo la resa.

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