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Tutte le critiche (fasulle) a Matteo Renzi

Se il Califfato nero, tanto fantomatico nella forma quanto attivo – ahimé – nella realtà del terrorismo internazionale, avesse un covo anche in Italia, immagino le compiaciute rassegne stampa che gli addetti stanno compilando in questi giorni.

Una volta tanto accomunati, editorialisti di destra e di sinistra, giustamente indignati, per carità, per l’orribile fine del ricercatore Giulio Regeni, probabilmente scambiato per una spia, perciò seviziato e ucciso al Cairo da poliziotti o agenti segreti che hanno non servito ma disonorato il loro governo, scoraggiano gli italiani dal recarsi in Egitto e Paesi limitrofi, per turismo o altro, un po’ per cautela e un po’ anche per ritorsione. Sì, anche per ritorsione, non meritando i loro governi autoritari alcuna forma di aiuto, visti i guadagni che possono procurare il turismo e altre forme di commercio.

Questo purtroppo è lo stesso tipo di boicottaggio perseguito e predicato dai terroristi che non sono ancora riusciti a vincere in Egitto e altrove la loro partita. Che viene spesso giocata, non a caso, con feroci attentati in località frequentate da stranieri, possibilmente selezionandone la provenienza per colpire soprattutto i paesi alleati con i governi locali nell’azione di contrasto al Califfato.

Sono caduti nella diabolica trappola della provocazione, fra gli altri, Pierluigi Battista sul Corriere della Sera e Giampaolo Pansa su Libero, con il suo solitamente coraggioso Bestiario. L’uno e l’altro hanno preferito stavolta alle dure ragioni del realismo quelle forse più comode dell’utopia. Che spesso diventa anche conformismo, come accade quando si pretende di esportare le nostre forme di democrazia in Paesi di ben diverse culture e tradizioni. Una democrazia, poi, la nostra sulla quale non riusciamo neppure a intenderci bene, vista la facilità con la quale la si vede e si sente minacciata dal presunto aspirante dittatore di turno avvolto nel tricolore.

Ne sa qualcosa, a questo proposito, Matteo Renzi. Che con il combinato disposto, come si dice, della Camera eletta con il suo Italicum, in attesa di applicazione, e il Senato non più elettivo e ridotto nelle funzioni, in attesa di approvazione e di conferma referendaria, viene indicato anche da fior di costituzionalisti, come il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, alla stregua di un uomo pericoloso per la democrazia. Come di Bettino Craxi diceva nel 1984 Enrico Berlinguer.

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Un’altra accusa che Renzi si sente muovere, sempre nel contesto di un suo progetto autoritario, è di lavorare giorno e notte per fare del Pd, ultima edizione di quello che fu il Pci, un onnivoro “Partito della Nazione”. Dal quale fare uscire gli ultimi irriducibili della vecchia sinistra per farvi entrare elettori, militanti e persino dirigenti stanchi o delusi dei partiti di quello che fu il centrodestra di conio berlusconiano.

È una prospettiva, questa del Partito della Nazione, che ha tolto il sonno, in particolare, a Pier Luigi Bersani e che ha cominciato a impensierire anche Walter Veltroni, fondatore e primo segretario del Pd. Che ne ha parlato più o meno allusivamente alla scuola di formazione del partito dicendo, fra gli applausi degli allievi, che “è meglio perdere che perderci”.

Renzi ha grillinamente liquidato come “un fantasma” il progetto attribuitogli da avversari e critici, comprensibilmente deciso a non lasciarsi impiccare ad una nuova insegna, bastandogli ed avanzandogli l’idea di guadagnarsi con la vecchia i voti del centrodestra “in libera uscita”. Così Giulio Andreotti definì nel 1972 i parecchi voti passati dalla Dc al Movimento Sociale di Giorgio Almirante, che poi li avrebbe però perduti restituendoli allo scudo crociato, specie quando i democristiani, indeboliti dalla sconfitta referendaria sul divorzio, nel 1974, rischiarono di essere sorpassati dal Pci.

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Certo, per quanto Bersani e compagni lo considerino di destra, Renzi non può essere scambiato per l’Almirante del 1972, né Berlusconi per l’Andreotti convinto di riprendersi i voti perduti. Nè Grillo può essere scambiato per il Berlinguer delle elezioni regionali del 1975 o delle elezioni politiche del 1976, che faceva incetta di voti e rischiava di vincere a dispetto di tutti e di tutto, compreso il quadro internazionale. Che era ancora quello dipinto dai vincitori della seconda guerra mondiale a Yalta. Dove l’Italia fu destinata all’influenza americana, per cui il “fattore k”, come era chiamato da Alberto Ronchey, destinava i comunisti all’opposizione, o al governo soltanto a livello locale.

Sono diversi i tempi e ancora più diversi i partiti e gli uomini. I voti in uscita dal centrodestra in direzione di Renzi difficilmente potranno tornare indietro, salvo che Berlusconi non riesca ad inventarsi un successore.

A meno di sorprese pentastellari, improbabili per quanto Grillo sia capace di spiazzare tutti, sia come comico sia come politico, come dimostra la vicenda delle unioni civili, Renzi potrebbe riuscire a dare un abito e un volto, il suo, al fantasma cui per ora ha ridotto tatticamente il Partito della Nazione. E festeggiarne magari l’esordio a Milano con l’elezione a sindaco di Giuseppe Sala, Beppe per gli amici del Corriere della Sera, che ha appena vinto le primarie con più del 42 per cento dei voti, in notevole vantaggio sui concorrenti di sinistra contrari proprio alla prospettiva del Partito della Nazione attribuita al presidente del Consiglio.

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