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Perché le primarie non sono l’elisir di lunga vita per i partiti

Le primarie del Partito Democratico celebrate la scorsa settimana a Milano che hanno sancito l’elezione del manager Expo Giuseppe Sala inducono a qualche riflessione di carattere pratico, ma anche e soprattutto politico.

La stagione dei referendum dei primi anni ’90, per cambiare la legge elettorale per il Parlamento e la liquidazione, più o meno coeva, dei partiti storici, in seguito alle devastanti, inique e violente incursioni del noto gruppetto di magistrati della procura di Milano, tali da annientare, nel morale ma ancor di più tragicamente nel corpo, tanti esponenti politici della cosiddetta prima fase della repubblica dovevano servire a garantire il rinnovamento della politica e di conseguenza a rinvigorire le istituzioni. Ad oggi, dopo un ventennio, i risultati sono stati una serie infinita di fallimenti, di delusioni cocenti: non è migliorata la politica, e le istituzioni vivono una sconcertante confusione, per non dire del declino morale in generale. Si potrebbe tranquillamente affermare che due decenni sono trascorsi invano, non a caso si registra un deteriorato clima sociale ed economico, frutto della incapacità della politica nostrana, non solo, di compiere scelte coerenti con le necessità degli italiani. Un vero e proprio disastro: abolizione delle province per finta, cancellazione per finta del senato, presidenzialismo camuffato, primarie finte. Tutta una finzione, ma pericolosa purtroppo, perché se le leggi approvate andranno in vigore nel giro di qualche anno, prima o poi ci si potrebbe trovare in qualche trappola.

Non sono pensieri da Cassandra, ma oggettive constatazioni. Le varie leggi licenziate dal Parlamento, non ancora in maniera definitiva, hanno toccato il delicato impianto costituzionale in modo frettoloso e senza una sufficiente cultura costituzionale. E’ inutile fare raffronti con l’Assemblea costituente degli anni 1946/48 che impiegò diciotto mesi e numerosissime sedute, diurne e notturne, per varare il modello finale, altri erano i padri costituenti, dotati di solida cultura giuridica e costituzionale, tanto è vero che per cinquant’anni la Carta ha retto, procurando agli italiani un bel periodo di democrazia, libertà e pace.

I costituenti erano tutti appartenenti a forze o movimenti politici, figli di culture riconosciute e rispettate da tutti. I partiti avevano una delineata visione istituzionale, ma anche una loro caratterizzazione etica, e si reggevano su un’organizzazione interna condivisa, legittimata e riconosciuta dagli iscritti e dagli elettori. Nei partiti quando si dovevano scegliere candidati nei vari organismi lo si faceva con la partecipazione di tutta la dirigenza e con consenso democratico, ci poteva essere qualche mal di pancia ma le scelte compiute venivano rispettate.

Il clima attuale indubbiamente è cambiato, ma le classi dirigenti degli odierni partiti non possono rinunciare alla loro responsabilità di individuare candidature funzionali a governare, al centro come in periferia, secondo i programmi approvati dal partito e le regole del bene comune. I candidati sindaci scelti con le tanto discusse primarie da un ristrettissimo numero di cittadini, talvolta neppure elettori del comune dove si elegge il primo cittadino, non possono essere il metodo democratico più coerente per scegliere i candidati. L’Italia non è l’America, i sistemi elettorali e politici sono profondamente diversi, come profondamente diversa è l’organizzazione dello Stato negli USA. E allora la si smetta con la grottesca retorica delle primarie e si individuino strade più rispondenti e vicine a noi per designare sindaci, presidenti di regione, parlamentari. Si vocifera che il PD ha in animo di legiferare in merito all’art.49 della Costituzione sui partiti, lo faccia immediatamente, tenendo conto dei principi di una vera democrazia interna. La democrazia e i partiti ne usciranno di certo rafforzati e maggiormente apprezzati.

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