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Perché è proprio una renzata l’accusa di Renzi ai 63 governi dormienti

Dei 63 “governi dormienti” che l’hanno colpevolmente preceduto nella storia settantennale della Repubblica, Matteo Renzi ha omesso per ragioni, diciamo così di tempo, più che di cortesia, i nomi di chi la presieduti. Ne avrebbe dovuti fare 26, avendo parecchi di loro guidato più compagini ministeriali.

Di questi 26 predecessori di Renzi, 10 sono ancora vivi e potrebbero, se volessero, rispondergli per negare di avere dormito. Sono, in ordine di successione, Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi, Lamberto Dini, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Mario Monti ed Enrico Letta. Non so se e chi si scomoderà a difendersi. Sinora hanno tutti taciuto, anche se di qualcuno, specie della stessa parte politica di Renzi, sono immaginabili i borbottii.

Berlusconi, poi, per uscire dal Pd, non ha neppure il bisogno di reagire, tante gliene dice ogni giorno a Renzi, dopo la rottura del famoso “Patto del Nazareno”, anche a costo di farsi processare politicamente da opinionisti o direttori di giornale che lo hanno a lungo sostenuto o compreso, come Vittorio Feltri e Claudio Cerasa.

Degli altri 16 predecessori alla guida del governo, passati più o meno da tempo a miglior vita, bisognerebbe sapere o immaginare chi si sia rivoltato di più nella tomba a sentirsi liquidare come dormienti già all’epoca in cui dovevano essere ben svegli per guidare, bene o male, il Paese: da Alcide De Gasperi a Giuseppe Pella, da Amintore Fanfani a Mario Scelba, da Antonio Segni ad Adone Zoli, da Fernando Tambroni a Giovanni Leone, da Aldo Moro a Mariano Rumor, da Emilio Colombo a Giulio Andreotti, da Francesco Cossiga a Giovanni Spadolini, da Giovanni Goria a Bettino Craxi. Che ho citato nell’ordine in cui si sono succeduti nell’elenco degli ex presidenti del Consiglio, spesso replicandosi a più intervalli. A De Gasperi, per esempio, capitò di fare ben 8 governi, comprensivi del primo formato nell’ancora Regno d’Italia, prima cioè del referendum costitutivo della Repubblica svoltosi il 2 giugno 1946. Ad Andreotti ne capitarono 7, a Fanfani 6, a Moro 5, altrettanti a Rumor, 2 a Segni, a Leone, a Craxi, a Spadolini e a Cossiga, uno ciascuno agli altri. Ma tutti uscirono dalla loro esperienza presidenziale convinti, a torto o a ragione, di essere stati ben svegli. Magari disarcionati malamente da colleghi di partito o alleati di governo, ma sempre svegli.

Non parliamo poi dei presidenti del Consiglio mancati, non essendo riusciti a portare a termine l’incarico, pieno o esplorativo, conferito loro dai presidenti di turno della Repubblica: da Attilio Piccioni a Tommaso Morlino, da Nilde Jotti a Ugo La Malfa, da Filippo Maria Pandolfi ad Antonio Maccanico, da Franco Marini a Pier Luigi Bersani, i cui sostenitori non ancora perdonano al loro ex compagno di partito Giorgio Napolitano di avergli impedito tre anni fa di fare un governo minoritario “di combattimento”, scommettendo ingenuamente sull’aiuto, prima o poi, dei grillini.

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Curiosamente è toccato proprio al mancato presidente del Consiglio Bersani, ospite di Giovanni Floris a La 7, difendere dalla liquidazione sommaria e generalizzata di Renzi i 63 governi repubblicani che lo hanno preceduto, anche quelli magari ai quali si sono opposti il suo vecchio partito, quando si chiamava Pci, poi Pds, poi ancora Ds e quello nuovo, il Pd, di cui è stato segretario. Persino Berlusconi, con i suoi quattro governi realizzati e guidati fra il 1994 e il 2011, potrebbe essersi sentito difeso da Bersani, con il quale d’altronde non è escluso che finisca per ritrovarsi nel fronte referendario del no alla riforma costituzionale.

In verità, l’ex segretario del Pd aveva deluso parecchi compagni di partito, anzi di corrente, annunciando la settimana scorsa l’intenzione di non contraddire nelle urne referendarie il sì espresso alla riforma, sia pure con sofferenza, in Parlamento. Ma proprio da Floris egli è tornato a fare sperare in un ripensamento la minoranza pidina decisa a votare no in autunno, dicendo che potrebbe tentarlo in questa direzione l’insistenza con la quale Renzi sta trasformando il referendum in un plebiscito sulla propria leadership. Un plebiscito che spaccherebbe a torto il Paese in due: da una parte “i barbari” del no, dall’altra i “buoni” del sì, come una volta si faceva –ha ricordato Bersani- per combattere i comunisti e precluderne l’accesso alla maggioranza e al governo.

Il sottinteso di questo ragionamento di Bersani è che Renzi ha preso il posto, o comunque occupato lo spazio che fu dell’anticomunismo. Che è poi lo spazio attribuito nel 1994 al Berlusconi sorprendentemente uscito vincente dalle elezioni nello scontro con la “gioiosa macchina da guerra” allestita dal segretario dell’ex Pci Achille Occhetto.

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La polemica ormai cronica con Renzi non ha tuttavia impedito a Bersani di partecipare alla diga alzata dagli amici del segretario del partito, pur con tutta la solita “fiducia” nella magistratura, in difesa del sindaco pidino di Lodi, Simone Uggelli, arrestato per turbativa d’asta, amico e successore del vice segretario del Pd Lorenzo Guerini al Municipio.

Bersani si è persino spinto oltre i renziani criticando severamente l’ordinanza di arresto firmata dal giudice con espressioni liquidatorie sul mandato popolare svolto dal sindaco.

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