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Cosa penso delle parole di Obama a Hiroshima

Un omaggio postumo, non un’ammissione di colpa. Settantuno anni non sono stati sufficienti a rimarginare ferite profonde che fanno ancora male ad una nazione che celebra la sconfitta ormai rassegnata, senza nutrire più nessuna illusione di rivalsa neppure morale, figuriamoci militare. Certo, la visita e le parole di Barack Obama a Hiroshima, con annesso abbraccio agli ottuagenari superstiti della immane e disumana strage atomica, vuol pur dire qualcosa, ma la presa di distanza radicale, la condanna che ci si attendeva non è venuta. Un presidente americano non può smentire un suo predecessore, né tantomeno condannarlo. E poi l’opinione pubblica del suo Paese è ancora convinta che soltanto quella terribile catastrofe piovuta dal cielo poteva mettere fine alla Seconda guerra mondiale. Dopotutto alcune centinaia di migliaia di giapponesi morti, feriti o permanentemente contaminati non erano che gocce nel catino dell’immane sterminio: sessanta milioni di vittime. Ma la guerra volgeva al termine, il Giappone era finito, la Germania non esisteva più. C’era proprio bisogno di quel supplemento d’orrore?

A questa domanda Obama non ha risposto. Non poteva rispondere. E si limitato ad auspicare un fantasioso, molto fantasioso, disarmo nucleare. Ottima intenzione. Ma s’è mai visto nella storia uno Stato che unilateralmente rinuncia ai suoi micidiali arsenali pregiudicando la possibilità di difendersi da un nemico riluttante a sposare la causa della “pace eterna”?

Francamente, pur con tutta la buona volontà, nessuno può prendere sul serio – se non la sua buona fede – le parole di Obama, mentre all’orizzonte si scorgono, in particolare sul quadrante asiatico, convulsioni che fanno temere attacchi atomici di fronte ai quali sarebbe sconsiderato da parte dell’Occidente il disarmo. Kim Jong-Un, il giovane tiranno coreano, ha appena concluso l’ennesima “prova generale” tra gli applausi del suo popolo terrorizzato. E nessuno può davvero credere che l’Iran degli ayatollah abbia davvero messo da parte il programma nucleare. Sicché Israele è sempre meno convinto di gettare in un pozzo nero i suoi armamenti atomici, come non ci pensano neppure la Francia e la Russia. Ma neppure l’India ed il Pakistan.

Lo stato maggiore americano, i responsabili del complesso industriale-militare statunitense hanno condiviso gli auspici di Obama? Realisticamente facciamo fatica a crederlo. Restano, comunque, le sue parole davanti al Cenotafio nel Parco della Pace di Hiroshima; restano, accanto agli spiriti eroici”, nel tempio di Yasukuni a Tokyo le memorie scolpite dei comandanti militari che vennero passati per le armi solo perché responsabili di aver fatto il loro dovere di soldati. Venne risparmiato l’Imperatore, ma un generale americano, con un tratto di penna, abrogò la sua origine divina. Ed il Giappone subì l’umiliazione più grande e dolorosa del massacro stesso. Shinzo Abe, primo ministro legato alle tradizioni nipponiche, tutt’altro che guerrafondaio, sta facendo che quel che può per restituire al suo Paese l’onore perduto. Senza dimenticare. E come si potrebbe, del resto?

L’Apocalisse si manifestò il 6 agosto 1945 alle 8.15. “Enola Gay” – in omaggio al nome della madre del comandante della missione Paul Tibbets, quanto cattivo gusto! – il bombardiere americano B-52 approntato per l’operazione, sganciò sul centro di Hiroshima “Little Boy”. L’esplosione si verificò a 580 metri dal suolo uccidendo sul colpo circa ottantamila persone, con il passare dei giorni arrivarono a 140 mila; a Nagasaki, nella seconda ondata, furono sessantamila le vittime. Migliaia restarono permanentemente infermi. Il 90% degli edifici di Hiroshima venne completamente raso al suolo e tutti i 51 templi della città distrutti. Un crimine contro l’umanità feroce e ingiustificato.

Dopo la devastazione di Hiroshima, il Presidente americano Henry Truman, comandante in capo delle forze armate e responsabile principale dell’operazione, con glaciale cinismo diede l’ultimatum: «Se non accettano adesso le nostre condizioni, si possono aspettare una pioggia di distruzione dall’alto, come mai se ne sono viste su questa terra». Il Giappone da lì a poco capitolò. Settantantuno anni dopo il ricordo di quell’immane tragedia, che giorni dopo venne completata con l’annientamento di Nagasaki e di altre città, non sembra più destare emozioni. Le coscienze si sono assuefatte all’orrore. E nel lungo tempo che è trascorso, la “più grande democrazia del mondo” non ha trovato il modo per scusarsi anche se il gesto di Obama lascia ben sperare. Gli USA hanno fatto del Giappone smilitarizzato il loro avamposto in Estremo Oriente. Eppure le tracce di quell’eccidio sono ancora visibili ed i danni permanenti arrecati al popolo non sono stati ancora sanati.

Ce lo la ha ricordato lo scorso anno la ripubblicazione di un libro diventato un classico dalla prima lontana edizione: “Hiroshima” del grande giornalista americano John Hersey (Skira). E’ la più lucida, penetrante e commovente inchiesta sull’eccidio che il reporter effettuò di due tempi, nel 1946 pubblicando sul New Yorker le storie di sei sopravvissuti e nel 1985 quando tornò in Giappone per verificare le condizioni degli stessi. Hersey incontrò e raccontò le vicissitudini della signorina Toshiko Sasaki impiegata in una fonderia, del medico Masakazu Fujii, della sarta Hatsuyo Nakamura, del gesuita Wilhelm Kleinsorge, del giovane chirurgo Terufumi Sasaki, del pastore metodista Kiyoshi Tanimoto. Da esse rappresentò squarci di umanità che riassumono, per chi legge ancora oggi, la fuga dalla morte e la resurrezione di una nazione. Per quanto minute siano, le vicende dei protagonisti di “Hiroshima” costituiscono le prove di come esseri colpiti da una dannazione inimmaginabile possano rialzarsi e vivere accanto alle assenze che ne hanno segnato drammaticamente le vite.

Vincere l’emozione non è facile scorrendo le pagine di Hersey che scossero gli americani quando le lessero. Tuttavia la vivida descrizione di esistenze mutilate e poi ricomposte nel dolore dà il senso di un orgoglioso sentire che è parte di una cultura ancestrale la quale forse solo oggi, nel tempo della omologazione globale, sfugge alle giovani generazioni giapponesi distratte da quell’occidentalismo del quale in alcuni casi incarnano il peggio. Tra i ricordi più vividi e coinvolgenti c’è quello del reverendo Tanimoto che, anni dopo il bombardamento, scrisse ad un amico americano raccontando la rocambolesca salvezza di un vecchio professore di letteratura. Questi, rimasto seppellito sotto la sua casa insieme con il figlio e consapevoli entrambi di essere spacciati, decisero come affrontare la fine. Ecco un brandello dello struggente dialogo: “Padre, non ci resta altro da fare che sacrificare le nostre vite per la patria. Auguriamo Banzai al nostro Imperatore”. Il padre si unì a lui: “Tenno-heika, Banzai, Banzai, Banzai” (che significa “Lunga vita all’ Imperatore”). A quel punto il vecchio professore confessò che “un sentimento di lucidità e di calma invase il mio cuore quando augurai Banzai al Tenno”. Poi il figlio riuscì a liberarsi e a tirar fuori il genitore che anni dopo ripeteva:”Che fortuna che siamo giapponesi! Mai ho provato un sentimento così meraviglioso come quando ho deciso di morire per il nostro Imperatore”.

Sempre secondo al testimonianza del pastore metodista, un gruppo di studentesse liceali venne avvolto dal fumo mentre riposavano a ridosso della palizzata che crollò su di esse nei pressi di un tempio buddista. Impossibilitate a muoversi, una di loro intonò, per farsi e fare coraggio, l’inno nazionale. Nel frattempo un’altra trovò un varco e riuscì a scappare. All’ospedale raccontò com’erano morte le sue amiche, tornando con la memoria a quell’inno cantato in coro. “Avevano solo tredici anni. Sì, la gente di Hiroshima morì con coraggio sotto il bombardamento atomico, convinta che fosse per il bene dell’Imperatore”.

Coloro che sopravvissero non furono meno coraggiosi. Le storie raccolte come foglie da Hersey lo provano inoppugnabilmente. E’ probabile che Obama lo abbia letto prima di chinarsi davanti alla memoria di un Giappone che ha saputo morire e risorgere.

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