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Che cosa è successo davvero fra Silvio Berlusconi e Denis Verdini

milan, centrodestra

Questa volta sarà difficile alla solita dietrologia presentare come una sceneggiata l’increscioso infortunio occorso al senatore ex forzista Denis Verdini. Che, presentatosi all’ospedale milanese dove Silvio Berlusconi è ricoverato dopo avere “rischiato la morte”, come ha raccontato il suo medico annunciando per la prossima settimana un intervento chirurgico sulla valvola aortica del paziente, non è riuscito a farsi ricevere dall’ex presidente del Consiglio. Di cui è stato per molto tempo uno dei più stretti e fidati collaboratori nella gestione del partito e delle candidature elettorali.

La responsabilità del mancato incontro è stata formalmente attribuita alla decisione dei medici di limitare ai “familiari” l’accesso al paziente. Ma si è visto che per familiari sono passati, oltre ai figli e alla convivente, l’avvocato e senatore di fiducia Niccolò Ghedini e i soliti Fedele Confalonieri, Adriano Galliani e Gianni Letta.

In realtà, il meno che si possa dire, o sospettare con ragionevolezza, è che è mancata a Berlusconi la voglia, o l’interesse, a ricevere l’ex coordinatore di Forza Italia. L’episodio deve essere apparso particolarmente sgradevole ai nostalgici, politici e mediatici, del cosiddetto patto del Nazareno fra Matteo Renzi e Berlusconi sul percorso delle riforme, ma anche altro. Un patto durato poco più di un anno e infrantosi contro l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, voluta dal presidente del Consiglio e segretario del Pd senza l’intesa con l’ex Cavaliere. Che la reclamava come prova di serietà e di coerenza, visto il comune interesse concordato a riformare cose non certo secondarie come la Costituzione e la nuova legge elettorale.

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Se fosse dipeso da Verdini, la candidatura di Mattarella per la successione al dimissionario Giorgio Napolitano, stanco del suo secondo mandato per comprensibili ragioni di età, ma forse anche per considerazioni più politiche, sarebbe stata accettata. Non fu certamente casuale la confluenza su Mattarella, emersa dallo scrutinio segreto che lo portò al Quirinale, anche di una parte del centrodestra. Furono proprio i verdiniani, tra i forzisti, ad essere sospettati, a torto o a ragione, di avere votato per il presidente scelto da Renzi, indifferenti al fatto che il segretario del Pd fosse stato più sensibile ai rapporti con le minoranze, al solito in fermento, del proprio partito che a quelli con Berlusconi. Il quale, dal canto suo, non era stato di certo incoraggiato ad accettare la soluzione propostagli da Renzi.

Fra i meriti di Mattarella lo stesso Renzi e i suoi fedelissimi avevano ricordato con tanto di dichiarazioni pubbliche il coraggio, la coerenza e quant’altro da lui dimostrati dimettendosi per protesta da ministro quando il governo di cui faceva parte, guidato da Giulio Andreotti, volle legittimare negli anni 90 con una riforma del sistema radiotelevisivo le tre reti tv possedute da Berlusconi: quante ne aveva la Rai. Una legittimazione poi confermata peraltro dalla bocciatura di un referendum promosso contro la terza rete del Biscione, nota come Rete 4.

Fondato o non fondato che fosse il sospetto di una convergenza dei verdiniani, a scrutinio segreto, per l’elezione di Mattarella al Quirinale, certo è che gradualmente da quell’evento in poi il senatore fiorentino di Forza Italia si dissociò dalla crescente opposizione del suo partito non solo al governo Renzi in quanto tale, della cui maggioranza i forzisti non avevano d’altronde mai fatto parte avendo sempre rifiutato la fiducia, ma anche alle riforme all’esame del Parlamento, passate  nelle prime navette fra Camera e Senato con i voti dei berlusconiani, determinanti a Palazzo Madama.

Quando si consumò formalmente l’uscita di Verdini da Forza Italia, con la formazione di un gruppo autonomo al Senato e con la ricerca dei deputati necessari a ripetere l’operazione alla Camera, non mancarono estimatori ed amici di Renzi, ma anche avversari maliziosi, che scrissero e parlarono di un’astuta recita delle partiti. Cioè di una separazione finta tra Verdini e Berlusconi, che non a caso ostentavano ancora amicizia. Finta, nel senso che Berlusconi avrebbe mandato avanti Verdini per tenere acceso sotto la cenere il fuoco del cosiddetto patto del Nazareno, in attesa di rianimarlo al momento opportuno, proteggendo intanto il governo Renzi da imboscate parlamentari.

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Quelle immagini televisive di Verdini accorso in ospedale da Berlusconi debbono essere apparsi per una decina di minuti ai nostalgici del patto del Nazareno come la prova della loro dietrologica rappresentazione della finta rottura politica intervenuta fra i due.

Ma l’impressione non è durata, appunto, più di una decina di minuti: il tempo occorso a Verdini per entrare e uscire dall’edificio senza poter accedere al paziente. A meno che qualcuno ora non voglia fantasticare anche su questo così evidente episodio continuando, come dicevo all’inizio, ad immaginare sceneggiate. Che a questo punto avrebbero però del macabro, viste le circostanze del ricovero raccontate da un medico curante non scambiabile per ragioni deontologiche, per quanto amico del paziente e forse anche di Verdini, per un altro attore della commedia.

Di questo simpatico medico, Alberto Zangrillo, tutti i giornali hanno giustamente riportato in titoli e articoli il consiglio rinnovato al suo paziente di rinunciare alla politica, dimenticandone o sottovalutandone però l’aggiunta che Berlusconi farà quel che vorrà. Un’aggiunta non a torto tradotta dal direttore del Giornale di famiglia, Alessandro Sallusti, nell’annuncio che “tornerà in pista fra qualche settimana quasi nuovo”. Ma lo stesso Berlusconi ha fatto diffondere una nota per avvertire praticamente che in pista si sente ancora, tanto da seguire la politica dall’ospedale e da garantire la piena operatività del partito. Egli avverte evidentemente un carisma cresciuto con la solidarietà umana che si è conquistato come paziente dopo troppe fatiche e tradimenti, fra i quali anche quello di Verdini. E ciò mentre Matteo Renzi raccoglie fischi fra i commercianti e il vice presidente grillino della Camera Luigi Di Maio, aspirante non nascosto alla successione, gli augura anche l’esperienza craxiana del lancio delle monetine, giusto per ricordare di che pasta sono i pentastellati: anche le graziose candidate a sindaco di Roma e di Torino, che in tanti a destra sono tentati di votare nei ballottaggi del 19 giugno in funzione antirenziana.

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