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Vi racconto l’astio a 5 stelle di Massimo D’Alema verso Matteo Renzi

In due anni e mezzo di scontro con l’odiato Matteo Renzi, che costituisce dopo Bettino Craxi il più grande incidente di percorso incontrato in quattro decenni, più grande anche della caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dell’irruzione di Silvio Berlusconi nella politica con la vittoria elettorale del 1994, la sinistra-sinistra, quella che va a letto con i calzini rossi per avere sempre il colore del cuore a portata di piede, non si è mai sentita così male.

Mentre Renzi, sempre lui, reduce dall’approvazione del decreto legislativo contro gli statali fannulloni, o furbetti del cartellino, vola a San Pietroburgo per vantarsene con Putin in persona, tra le pieghe di un summit internazionale, e dimostrare di quali e quante riforme egli sia capace in Italia, Nichi Vendola per continuare a sorridere deve starsene in Canada col suo compagno Ed e farsi fotografare, e intervistare, col figlioletto Tobia, nato quest’anno in California. Dove – ha spiegato l’ex governatore pugliese – “la legge consente di scrivere all’anagrafe quello che vuoi”, a prescindere dall’utero della necessaria gravidanza.

Massimo D’Alema, almeno sino a qualche giorno fa in Puglia, in attesa di tornare a Roma – si presume – per scegliere nel ballottaggio di domenica prossima fra il suo compagno di partito Roberto Giachetti e la grillina Virginia Raggi come sindaco della Capitale d’Italia, si guadagna da Stefano Folli, l’editorialista di Repubblica, la qualifica di “emblema del declino della sinistra”, dopo esserne stato e forse ritenendo di esserne ancora “leader storico”.

Fabrizio Rondolino, peraltro suo ex collaboratore ai tempi di segretario dell’ex Pci e poi di presidente del Consiglio, ha invece invitato D’Alema sulla prima pagina della storica, anch’essa, Unità fondata incolpevolmente da Antonio Gramsci, di decidersi a dire se voterà Giachetti, dopo avere smentito l’intenzione attribuitagli da un retroscenista di Repubblica, per niente deciso a ritrattare il suo racconto, di preferire la candidata pentastellata al Campidoglio pur di fare un dispetto a Renzi, e di contribuire ad una sua sconfitta politica, magari propedeutica ad un’altra ancora più grossa e inevitabilmente foriera di una crisi di governo, e di partito: la vittoria del no al referendum di ottobre sulla riforma costituzionale.

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Mentre Rondolino si aspetta da D’Alema un sì, per quanto sofferto, al povero Giachetti, già definito nei mesi scorsi dall’ex presidente del Consiglio inadatto, o quasi, alla carica di sindaco di Roma, il presidente del Pd Orfini, e casualmente Matteo pure lui, come Renzi, lo ha sfidato a presentarsi disciplinatamente ai gazebo allestiti dal partito per festeggiare un po’ di tutto: dall’abolizione della tassa sulla prima casa alla mobilitazione per il sì al referendum costituzionale d’autunno.

E’ facile immaginare con quanto fastidio D’Alema abbia accolto, con il carattere che ha, invidie a sfide a condividere ciò che notoriamente non gli piace. E cui, se proprio dovesse decidere di offrire qualche gesto di sopportazione, vorrebbe farlo con la maggiore discrezione possibile.

Peraltro, l’ex presidente del Consiglio non si è limitato a smentire le intenzioni e confidenze ad amici attribuitegli con ostinata baldanza da Repubblica. Né si è limitato ad attribuire, a sua volta, al retroscenista del giornale diretto ora da Mario Calabresi l’esecuzione di chissà quale odioso mandato dei suoi avversari di partito per denigrare la propria immagine. Egli ha pure accusato Renzi e amici, con dichiarazioni dirette o altri retroscena, magari suscettibili anch’essi di smentite o precisazioni, di “stare cercando un capro espiatorio perché pensano che i risultati di domenica non saranno soddisfacenti come vorrebbero”.

Ma non è finita. L’adiratissimo D’Alema ha anche espresso il sospetto, se non la convinzione, che una vittoria del sì nel referendum costituzionale d’autunno potrà servire a Renzi per una resa dei conti nel Pd, con o senza congresso anticipato. Una resa di conti comprensiva dell’espulsione dei dissidenti, a cominciare da lui, “l’emblema – secondo la già ricordata definizione di Folli su Repubblica – del declino della sinistra” di vecchio, anzi antico conio.

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Buone notizie arrivano invece, una volta tanto, almeno per gli affezionati all’ex Cavaliere, dal fronte di Silvio Berlusconi. Che ha superato così bene l’intervento al cuore da avere indotto i medici a prevederne il ritorno pieno alla politica, a dispetto di tutti i preparativi, annunciati o nascosti, di una successione.

Al risveglio Berlusconi non si è risparmiato –secondo una gola profonda raccolta da Libero Quotidiano diretto da Vittorio Feltri – il piacere di “fare il gallo con l’infermiera”. Avrà forse da dolersene la compagna Francesca Pascale, che dal canto suo si è guadagnata, con quelle lacrime carpitele dai fotografi appostati davanti all’ospedale, la davvero insperata difesa dell’insospettabile, seppur sempre urticante, Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Dove in queste ore preferiscono prendersela con i troppi “non so” e “non ricordo” opposti dal giudice costituzionale ed ex presidente del Consiglio Giuliano Amato ai giudici che lo hanno interrogato a Roma sugli avvicendamenti da lui gestiti ai Ministeri dell’Interno e della Giustizia negli ormai lontani anni delle presunte trattative fra lo Stato e la mafia stragista.

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